Dal punto di vista puramente tecnico, questo “Endkadenz vol. 2” non può essere considerato il nuovo album dei Verdena. La band aveva completato un totale di 26 canzoni che aveva poi deciso di suddividere in due volumi di lunghezza identica, da pubblicare separatamente. Di conseguenza, dopo l’uscita della prima parte a inizio 2015, l’attesa per il sequel era divenuta piuttosto spasmodica.
La copertina è la stessa del vol.1, quindi abbiamo di nuovo la rilettura pop art del particolare michelangiolesco della creazione, con lo sfondo colorato di blu anziché di rosso. Una scelta non dissimile da quella che, a suo tempo, fecero i Guns n’ Roses per il loro “Use Your Illusion”.
A dir la verità, le due immagini non sono proprio identiche: la mano di sinistra, in questa seconda parte, risulta leggermente spostata e ripiegata, come se si stesse sottraendo al contatto dell’altra. Sarà questo il significato del gesto? Oppure, esattamente come i testi della band, anche questo accorgimento grafico è da considerarsi totalmente casuale?
Direi che si può dormire anche senza rispondere a questo interrogativo. Più interessanti, mi sembra, sono le considerazioni riguardo al contenuto musicale. Per ammissione stessa della band (mi riferisco alla splendida intervista rilasciata pochi giorni fa al giornalista Claudio Todesco), le canzoni composte sono state sistemate sui due volumi in maniera abbastanza frettolosa e casuale, così che sarebbe superfluo mettersi a fare distinzioni stilistiche tra questi due lavori.
Vero, ma solo fino a un certo punto.
Di sicuro c’è che le sonorità complessive sono simili, non è difficile capire che i brani di entrambe le parti sono stati composti nello stesso lasso di tempo.
I Verdena del 2015 sono una band che ha esasperato al massimo le distorsioni, che ha fuso la voce nelle chitarre al punto da farla quasi diventare uno strumento aggiunto, e che ha raggiunto nuovi livelli nella schizofrenia sonora e compositiva: ci siamo soffermati fin troppo sulla prima parte di “Endkadenz”, direi che non è il caso di aggiungere altro.
Allo stesso tempo, però, c’è forte l’impressione che il vol. 2 sia molto più complesso e difficilmente inquadrabile, rispetto al suo predecessore. La cosa potrebbe anche essere casuale, visti i criteri di divisione dei pezzi, però è indubbio che, nonostante i ripetuti ascolti, non ci sembra di aver penetrato per nulla l’essenza di questi nuovi 13 episodi.
Il primo volume, pur avendo rappresentato il lavoro più ostico mai registrato dalla band bergamasca, conteneva lo stesso alcuni momenti più immediati e leggermente diversi dal mood generale del disco (penso a “Derek”, a “Nevischio” o anche solo al singolo “Un po’ esageri”) e risultava quindi più comprensibile.
Qui invece l’impressione è che i nostri non ci abbiano volutamente lasciato nessun punto di riferimento, nessun appiglio da cui poter partire per l’ascolto.
Per carità, i Verdena non hanno mai amato le cose semplici: siamo sempre di fronte ad una band dalla struttura classica, chitarra, basso, batteria, ma che ha sempre amato soluzioni melodiche poco convenzionali e una non linearità nella struttura dei pezzi.
Per “Endkadenz”, il loro uso dello studio di registrazione è divenuto ancora più libero e freneticamente attivo, un laboratorio in cui rinchiudersi per mesi interi a scrivere e sperimentare, tanto che, sempre a Claudio Todesco, il cantante Alberto Ferrari ha confessato che la scelta controcorrente di utilizzare le bobine anziché l’ormai più diffuso sistema digitale, è stata fatta proprio per cercare di porre un freno a questa illimitata creatività.
I brani di questo lavoro (e il volume 2 da questo punto di vista è ancora più estremo) hanno dunque tutti questa caratteristica quasi da Work in Progress, con la band che parte in una direzione e poi ne prende altre, con atmosfere che cambiano e strumenti che si aggiungono, in una stratificazione sonora che ha letteralmente dell’incredibile.
Forse c’è meno durezza, meno pesantezza, rispetto alla prima parte: al di là del monolite sonoro rappresentato dalle due sezioni di “Fuoco amico” (la seconda addirittura sembra citare certi riff granitici e ossessivi tipici del Doom britannico), della cavalcata satura di distorsione di “Caleido” o del primo singolo “Colle immane” (se “Un po’ esageri” era un frizzante brano di pop anglosassone, questo è costruito su un riff ultra distorto e su porzioni di batteria campionata e appare nel complesso molto più scuro), il resto degli episodi sembra un po’ più votato alla melodia.
Lo si sente sin dall’opener “Cannibale”, il cui riff sbilenco sfocia quasi immediatamente in un ritornello dalla singolare apertura melodica; oppure nella successiva “Dymo”, che ha il pianoforte come strumento principale, lasciando in sottofondo la chitarra e ha un’atmosfera sognante e malinconica che la rende particolarmente affascinante.
Stessa cosa per “Identikit”, il secondo dei due brani di “Endkadenz” prodotti da Marco Fasolo e non dallo stesso Alberto: è forse il pezzo più tranquillo di questo volume, data la presenza di flauti e di chitarre acustiche che contribuiscono a disegnare un quadro vagamente bucolico.
Addirittura, nella conclusiva “Waltz Del Bounty”, il feeling si fa a tratti solare, pur rimanendo questo un episodio ancora meno decifrabile dei precedenti.
Come già accadeva nella prima parte, infatti, le ultime tracce sono le più complesse ma, apparentemente, anche le più valide. “Troppe scuse” e “Nera visione” in particolare, sono quelle che sembrano incarnare maggiormente le possibilità espressive che oggi i Verdena hanno a disposizione, in questo loro muoversi in mille direzioni diverse, senza troppo preoccuparsi di dove si vada a finire.
È dunque difficile tirare somme su questa seconda parte di “Endkadenz”. Difficile non solo perché si tratta di un lavoro duro da assimilare, ma anche per la straordinaria mutevolezza della sua natura: si fa in fretta a cambiare idea su queste canzoni; si fa in fretta a farsi colpire da un particolare inedito, a trovare un punto di appoggio che prima non si era notato, e iniziare a guardare le cose da una prospettiva del tutto diversa.
Occorreranno mesi, più probabilmente anni, forse. Ma è un esercizio a cui i Verdena ci hanno già abituato e il fatto che, nonostante tutto, siano così popolari, vuol dire che quel che fanno un certo valore ce l’ha e che molta gente, in quest’epoca di superficialità e piaggeria artistica, ha ancora voglia di impegnarsi seriamente nell’ascolto di un disco.
Detto questo, lasciatemi dire che, almeno per ora, io preferisco la prima parte. Ma forse dipende solo da questo, che è uscita a febbraio e che ho quindi semplicemente avuto più tempo per assimilarla a dovere.
Una sola cosa sembra costituire un punto di certezza: con “Endkadenz” i Verdena si sono spinti dove mai nessuno, per lo meno in Italia, era riuscito ad arrivare. Difficile immaginare cosa potranno ancora regalarci in futuro. Ma è una domanda che troverà risposta a tempo debito: adesso c’è un tour ricchissimo di date che sta per essere annunciato…