Torino, il palazzetto si riempie a poco a poco. Gli U2 mancano dal 2010, e si percepisce il carico di attesa per il loro ritorno. Dagli altoparlanti escono i Coldplay e Bruce Springsteen. Ma quando si arriva a Patti Smith, il ritornello di People have the power cantato dai tredicimila nel parterre e sugli spalti lascia presagire che ormai ci siamo. E infatti una piccola figura vestita, come al solito, di nero salta di colpo sulla enorme “e” che è una delle due estremità del palco (costruito come un enorme blow-up del logo del tour). Il palazzetto esplode, e Bono cammina sulla lunga passerella che lo divide dal resto della band, sulle prime note di The miracle (of Joy Ramone), dicendo in italiano “Il più bel suono del mondo”. Già, la musica. Il più bel suono del mondo. Siamo qui per lei stasera, e per loro.
Guardando dall’alto il mare di lucine bianche degli smartphone, vien da pensare che siano lucciole elettriche di desiderio. Potere avere per sé un momento di quella luce, di quel suono incantato. “I sing the body electric”, hanno cantato due poeti giganti come Walt Whitman e Philip Levine, a cavallo di una storia americana di due secoli. Non ho neanche il tempo di completare questo pensiero, che come un razzo parte, neanche a farlo apposta, Electric Co. Sulla testa di Bono c’è un enorme bulbo di lampadina bianco; poi, un, dos, tres, arriva Vertigo, seguita a ruota da una grande I will follow, e le luci impazziscono. Non c’è che dire, un inizio col botto.
Poi Bono si rivolge alla gente, prima in inglese e poi in italiano: “Sono passati cinque anni. Ci siete mancati”. E racconta di sua mamma, morta quando aveva quindici anni. Parte una struggente Iris; sul ledwall sfila una galassia che ruota intorno al suo viso, e lui pian piano si inginocchia ai suoi piedi. Resta poi l’immagine della casa, con una lucina alla finestra; il ledwall diventa una strada, diventa Cedarwood road, una strada d’oro e fiori tra i sobborghi, mentre Bono cammina in alto Rimane, in fondo, solo un ragazzo con una chitarra. “Questo sono io a 18 anni, che cerco di fare colpo su una ragazza di nome Alison Stewart (la moglie, n.d.r.). E ci sto ancora lavorando”. Risate. E’ per lei Song for Someone, una canzone per qualcuno. “If there’s a light, don’t let it go out”. Sembra il leitmotiv di tutto questo percorso, la ricerca della luce. Quello che gli U2, dopo tutto, hanno sempre fatto, nonostante ci sia chi non perdona loro qualche scivolone musicale. (Ma alzi la mano chi non si è mai sbagliato).
Già a questo punto si capisce – e il resto della serata ce lo dirà – che non è un concerto, ma un lungo racconto sapientemente cucito, che affianca canzoni scritte in un arco temporale di oltre trent’anni. Una musica che è profezia, e anche domanda pressante sull’oggi. Che piaccia o no, la storia non può stare fuori dalla porta di un concerto degli U2. Men che meno in giorni aspri come questi. E infatti, nel cammino cambia qualcosa.
Dopo questa prima parte, più legata all’innocenza, arriva qualcosa di inaspettato. Come sempre anche in passato, la lunga passerella che ha portato Bono in mezzo alla gente viene calcata anche da Adam e da un Edge in ottima fora. Ma siamo spiazzati dal vedere Larry procedere solo, marciando come un tamburino di fanteria, col suo strumento appeso al collo. E’ Sunday Bloody Sunday, e la passerella diventa una enorme bandiera irlandese. La gente urla. Dà i brividi vedere il volto delle persone uccise trent’anni fa, e che ancora aspetta giustizia. Ma mentre procedono, capisci che cantano di oggi, cantano della Siria e di tutti i morti che si ammassano al confine, di quelli che arrivano portati dalla pietà del mare. “I can’t believe the news today, I can’t close my eyes and make it go away”, oggi non riesco a chiudere gli occhi davanti a questo male che avanza. Fino a quando dovremo cantare questo canto? (Sentinella, a che punto è la notte? chiede la Bibbia. E come non pensare a quello che abbiamo sotto gli occhi adesso, le foto tragiche che oggi sono sui giornali di carta, stampate accanto alla faccia di Bono?). Continua il canto di guerra, e ci ricorda: “è vero, siamo immuni, quando i fatti sono fiction e la tv è la realtà. Oggi milioni di persone piangono, noi mangiamo e beviamo mentre domani loro muoiono”. Parole di trent’anni, parole dell’oggi. Non è forse questo che chiediamo all’arte, di tenere alto il grido?
Infatti esplode il grido di Raised by wolves. Siamo stati cresciuti dai lupi, in cosa ormai si può credere? Le proiezioni diventano quelle di un enorme fumetto in bianco e nero, che ci riporta indietro nel tempo. Until the end of the world, è lì che i nodi vengono al pettine. Bono canta, senza dimenticare di essere immerso nell’abbraccio del palazzetto: beve, sputacchia, fa le fontanelle come i bambini, ridendo. E’ sempre lui, la mosca, è sempre Irlanda dolce e amara. Onde enormi escono dallo schermo – un diluvio universale, Hokusai in salsa pop – e sul parterre piovono dall’alto decine di foglietti di carta, certo lanciati dai quindici tecnici che resteranno sospesi, seminascosti a venti metri d’altezza, come una potente metafora, per tutta la lunghezza del concerto.
Dopo l’acqua del diluvio, cala un enorme muro giallo. Il ledwall si abbassa e si allunga. Muri. Tutti i muri che pensavamo caduti per sempre nel 1989, e che si rialzano nuovi anche in questi giorni. Lo show continua, atto secondo. Siamo in un enorme teatro di luci. Si scatena una ridda di parole e frasi in italiano, come graffiti su un muro elettrico. Tutto ciò che sai è sbagliato Gesù ha pianto contraddizione paradigma Giappone Omen Non potrebbe mai accadere qui Il gusto è nemico dell’arte. Infine, BELIEVE (credi) , che resta un rosso LIE (menzogna). In sottofondo, una rivisitazione registrata in chiave elettronica di The fly. Il palazzetto non c’è più. C’è un muro. C’è California, e poi Even better than the real thing e Mysterious Ways. Bono raccoglie una ragazza dal pubblico, e le dà in mano uno smartphone, da cui lei proietterà anche Elevation in diretta streaming, riprendendo i quattro sul palco e lanciandoli direttamente in rete. “Il punto per cui usiamo anche tanta roba costosa, il punto della tecnologia, per noi, è azzerare le distanze, poterci sentire più vicini ad ognuno di voi”. Sarà anche un luogo comune, ma è esattamente quello che sta facendo, mentre lo dice.
La parentesi tecnologica si chiude, si torna esattamente al punto. Ordinary love: è questo amore ordinario, dedicato a Mandela ma consegnato a tutti, quello che può risollevare questo mondo caduto. Adam e Larry scompaiono nel buio, e, nel cerchio di luce in mezzo al palazzetto, restano solo Bono e un piano, a cui si siede the Edge, per una versione acustica di Every breaking wave. Poi arriva la poesia, e con lei la luce e il dolore. Edge muove le dita, dal pianoforte escono le note struggenti di October. Sul video appare una lunga teoria di macerie. E’ l’Apocalisse, è Kobane, è la Siria, è il nostro cuore, di noi tutti che siamo lì, in un silenzio improvviso? Non lo so, ma è un contrasto che toglie il fiato, quello tra le macerie e la dolcezza dell’alba. (La dolcezza struggente cantata da Pavese, dei propositi fermi come l’alba). E infatti, dopo un po’ non lo si tollera, e qualcuno spezza la magia, urlando.
Siamo di nuovo in guerra: Bullet the blue sky, Bono afferra un megafono, parla di un ragazzo irlandese che si sentiva sulla barricata, ma cambia la fine: dove il testo dice “Run into the arms of America”, lui dice: I run into your arms, corro tra le VOSTRE braccia, siete voi il mondo. Non ce ne accorgiamo subito, ma è quello che ci sta dicendo da quasi due ore.
Passa Zooropa, poi il palco si fa rosso e il volume esplode: una sempre monumentale Where the streets have no name apre il campo a Pride (in the name of love): Ovunque voi siate nel mondo, urla Bono, cantate per i costruttori di pace, pregate per i costruttori di pace, lottate per i costruttori di pace. Ci ricorda, il testo della canzone, dell’uomo disperato, dell’uomo preso nel filo spinato, o scaraventato su una spiaggia deserta. Sono passati quasi trent’anni, ma è oggi.
Le luci si abbassano; Bono intona, e tutti lo seguono, With or without you. Poi augura la buonanotte e scompare dietro agli altri tre, ma sappiamo che mente. Lo si sente.
Pochi minuti e il muro si riaccende, con un volo d’uccello su un pianeta coperto di luci, e la voce di Stephen Hawking. Parole sul video invitano la gente comune a fare pressione sui governanti, ad essere presenti, a mettersi in gioco in prima persona. Compare enorme l’Hashtag #refugeeswelcome, si riaccendono di botto le luci. E’ City of blinding lights.
Sì, ci sono le macerie, c’è il dolore, ma c’è anche l’alba. Nonostante tutto, nonostante il sangue, nonostante quello che ti spezza il cuore, “it’s a beautiful day”. Mi ricorderò di voi, ci promette Bono. “Ci sono così tante cose che ci spezzano il cuore oggi nel mondo, ma c’è così tanta gioia che riempie l’aria stasera. Grazie. Nel cuore dell’uomo c’è un’incredibile capacità di male, ma anche di bene. Io non so quale sia la risposta alla domanda pressante dei rifugiati, ma so che possiamo trovarla. Sembra sempre impossibile, finché non ci si riesce. Avreste mai creduto che fra cinque anni vedremo la prima generazione nata senza Hiv? Ma siete voi che dovete ricordarlo ai potenti. Grazie per il vostro lavoro”.
Ci avviamo alla fine. Ci accompagna Red, il canto per gli invisibili di tutto il mondo. Bono è saltato sul palco con People have the power, e ne salta giù con One.. Se non è un manifesto politico, questo. Ben al di là dell’impegno umanitario di superficie. La bellezza salverà il mondo, ma solo se ci sentiamo tutti appartenere allo stesso corpo. Love is a temple, anche se a volte l’uomo è costretto a strisciare. Bono aggiunge la sua voce solo alla fine, godendosi immobile la folla che canta per lui. Sembra quasi dire che nessuno è insostituibile, neanche lui. Ma tutti possiamo gioire dell’esserci. E anche loro sono qui. Li puoi amare od odiare, ma loro ci sono. E ci aiutano a restare umani.
(Mariadonata Villa)