Quale può essere il metro della grandezza artistica? L’eternità della produzione? L’assoluta capacità di anticipare? La immensa potenza della sintesi? Il rendere visibili le forze segrete dell’universo? La fastidiosa testimonianza della verità suggerita nel fondodell’io? La famelica voracità del tutto amalgamare? O forse tutto questo insieme? O forse tutt’altro? E queste domande valgono anche per un musicista rock, scampolo culturale di un occidente a rischio di “sottomissione” (dice Houellebeq) per mancanza di interessi?



La morte di David Bowie, avvenuta dopo una malattia tenuta lontano dai rotocalchi e rappresentata con inusitata preveggenza nel recentissimo video di Lazarus (“Guardate lassù, sono in paradiso; Ho cicatrici che non possono essere viste; Ho il dramma, che non può essere rubato; Mi conoscono tutti ora”), obbliga tutti a fare i conti con la produzione, il temperamento cannibale e l’eredità di questo musicista inglese famelico, che in una qualche maniera ha punto di contatto e di osmosi compenetrata con quelle domande iniziali. Bowie non è stato “il più grande musicista della musica pop-rock”, definizione che probabilmente calza meglio per Elvis Presley, per i Beatles o per Bob Dylan. Ma è stato fino ad oggi uno dei massimi interpreti della cultura (e quindi della musica) degli ultimi sessant’anni.



Evitando le note biografiche (Bowie nasce nel ‘47, incide il primo disco nel ’67, a cui ne seguiranno altri 25, più due attribuiti ad una sua band, i Tin Machine; da bimbo suona il sax, poi passa a chitarra, tastiere e vibrafono, violino e violoncello; inoltre recita in ventotto film e colleziona quadri di grandi del Novecento), quello che salta agli occhi dell’artista Bowie, è che era un uomo dotato di temperamento e personalità onnivora, curiosa, determinata, creativa oltre l’immaginazione.

Incapace di staticità, Bowie era poderosamente coinvolto in ogni aspetto del linguaggio culturale (film, libri, pittura, scultura, saggistica), anticipatore per natura, alternativo anche al proprio successo. Era così irruente e famelico, che a diciannove anni – perfetto profeta della sua epoca, gli effervescenti, folli e instabili anni Sessanta – aveva già scritto una trentina di canzoni, quasi tutte rifiutate dalle case discografiche, facendo esperienza di una decina di rockband, di teatro, di mimo, di recitazione per cortometraggi, frequentando palcoscenici di pub e teatri universitari, ma anche di locali gay e ambienti della controcultura britannica.



Accumula esperienze alla velocità della luce, come fosse un replicante di Blade Runner (“la candela che più illumina, arde per la metà del tempo”) ed esordisce senza clamori nel ‘67, ma a quattro anni dall’esordio Bowie si costruisce un personaggio di futuro contemporaneo (“The Rise And Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars”), incidendo uno dei dischi fondamentali della storia del rock.

Al culmine del successo, il musicista britannico abbandona a sorpresa questo suo personaggio perché la musical-fiction stava rendendo il sopravvento sulla sua sanità mentale, interpretando forse per primo nel rock quella maledizione della maschera che possiede e governa la realtà che è rintracciabile nella tragedia greca come in Dorian Gray, e in icone del pop come Freddy Mercury e Ozzy Osborne. Nel fulgore di Ziggy Stardust la scena prende il sopravvento sulla vita, come pochi anni prima la musica in Brian Wilson ha preso il sopravvento sulla realtà conducendo alla pazzia il suo creatore-schiavo: Bowie lascia le maschere e anche il glam da lui inventato, abbandona il progressive cosmico degli Spiders from Mars (che al pari dei King Crimson guardavano la terra dal cosmo, già interrogandosi sul nulla che l’umanità era in grado di esprimere in termini di capacità di autosoddisfarsi degnamente) e si rituffa prima nel funky americano e nel divertissment ritmato, poi scopre l’avanguardia berlinese (con “Low”, “Heroes” e “Lodger”) in compagnia di Brian Eno,  Robert Fripp e Adrian Belew, con dodici anni di anticipo su tutto il mondo. Berlino è gabbia e regime, è tensione prometeica e promessa di felicità, ma quando tutti si spostano nella città del muro, lui è già altrove. Ci ritornerà solo qualche decennio dopo, quando nel 2013 (nel cd “The Next Day”) si domanderà “Where Are We Now?”, proprio domandosi dove è finita le gente e le aspirazioni della Berlino di “Heroes”.

 

Quando lo si fissa, Bowie è già più in la. Raggiunge con “Let’s Dance” il suo successo discografico più cospicuo con un prodotto di funky-pop firmato da Nile Rodgers a cui la chitarra stellare di Stevie Ray Vaughan offre cesellature rock-blues, ma subito dopo (1987, “Never Let Me Down”) incide il suo disco più scarso, reso forse insufficiente dalla necessità impellente di fare sintesi di tutto se stesso, con un tour monumentale ed escatologico in cui tutte le sue maschere (ragni, Ziggy, Major Tom, le influenze occultiste di “Station to Station”….) sono chiamate a recitare il proprio de profundis. Nei decenni successivi, il “duca bianco” miscela i campionamenti, la techno, l’industrial metal, la jungle. Scrive canzone e disco a proposito delle Torri Gemelle (“Heathen”, 2002) e incide poi un album cattivo sulla sparizione della realtà dal panorama delle coscienze e conoscenze umane (2003, “Reality”), un disco aspro quanto il “Final Cut” rogerwatersiano, in cui si sentono echi di Noel Chomsky. Gli altri faticano a incidere cose che abbiano ancora significato, lui continua a mettere la vita e le sue distorsioni, nei suoi brani. E così, a sorpresa, ecco la conflagrazione finale di “Blackstar” e della notizia di domenica 10 gennaio. E’ la fine della sua musica, della sua arte. Almeno in quelle dimensioni terrene che tutti conosciamo.

 

Furbamente androgino, David Bowie ha usato la bisessualità (per sua stessa ammissione, replicando la confusione già citata da Lou Reed) perché il messaggio gay era un ottimo traino comunicativo già negli anni Sessanta, per poi vivere qualche decennio di fianco ad una delle più belle donne del mondo, la somala Iman. Sposata, guarda un po’, in una chiesa di Firenze. Nel 1987 ho avuto modo di partecipare a una piccola conferenza stampa a Rotterdam, in occasione dell’avvio del Glass Spider Tour (un live di questa tournèe è uscita nel 2008: “Glass Spider Live”). Alla domanda come mai portasse sempre un crocifisso al collo, se fosse vezzo, abitudine o credenza, Bowie ebbe a rispondere: “Lo porto perché ci credo e perché la fede è ciò a cui mi sono aggrappato per ritrovare me stesso. Di nulla siamo certi, se non del fatto che siamo nella mani di Dio”. Buddista, induista, cristiano, occultista: Bowie è stato un po’ nulla e un po’ di tutto, ma di certo – il 20 aprile del 1992 – non è stato per caso oppure per rispetto di una piece ben recitata, che l’autore di “Space Oddity” e di “Starman” si è inginocchiato, nel suo completo verde pisello, recitando il Padre Nostro davanti ad un miliardo di persone collegate in diretta mondovisione con lo stadio di Wembley.

 

 

Se questo è il suo percorso – sintetizzato come potrebbe fare un discepolo mediocre di Philip Dick sotto l’effetto di sostanze psicotrope – allora possiamo dire che la morte di David Bowie, intendendo la fine della traiettoria umana dell’artista, ha nella musica rock pochi altri precedenti in termini di statura e di influenza. Forse solo la scomparsa di Elvis Presley, di John Lennon, di Bob Marley e di Johnny Cash hanno avuto la stessa portata, visto che Bowie è tra i pochi ad aver anticipato e interpretato, definito e indicato quello che la musica rock poteva essere ed è effettivamente poi stata.

 

Si può dire che l’addio di Bowie a “ground control” ha lo stesso impatto sulla musica contemporanea della scomparsa di uno dei grandi compositori della ben più nobile musica classica? Assolutamente si. Bowie come Stravinsky, tanto per indicare un compositore a noi vicino e che ha avuto le stesse qualità poliedriche e la stessa influenza sul Novecento. E come per tutti i grandi, la sua scomparsa al di la delle commemorazioni, alza un velo di mistero impenetrabile sulla sua grandezza, sulla sua arte e sul lascito artistico di cui noi siamo depositari, sul cuore della sua persona e personalità, sulla forza delle emozioni che ha suscitato e che rimarranno, generando nel futuro altri interrogativi, altri dubbi, altre passioni, altre domande, altri desideri di non fermarsi, di camminare, di inciampare, tornare e poi riprendersi. “L’arte evoca il mistero senza il quale il mondo neppure esisterebbe”. Lo diceva Rene Magritte, uno degli artisti (insieme a Dalì, Beacon e Balthus) che Bowie più amava.