“Non mi capiscono? Non è un problema mio.” Pare che siano queste le parole con cui in un’intervista Tim Buckley abbia risposto ad una domanda un po’ impertinente sulla scarsità delle vendite del suo ultimo lavoro, Starsailor. Eppure, parte della critica si era accorta eccome della rivoluzionari età della musica di Buckley, al punto che l’illustre rivista Down beat, una delle più insigni e stimate riviste jazz, era arrivata a dargli cinque stelle.
Che l’incomprensione del pubblico non fosse un problema suo era un dato assolutamente assodato. Che lui stesso la accettasse, questo è un altro discorso.
La vita e l’arte di Tim Buckley sono una lunga corsa su un filo. Sotto, il vuoto. La storia era cominciata, come quella di tanti folk singer che affollavano scene, coffee-houses e studi di registrazione. Forse, però, fuori tempo massimo. Nel 1961, Kennedy regnante, erano in tanti a credere in un movimento più politico (in senso ampio) che artistico, laddove con una chitarra in mano e un giornale in tasca da cui trarre ispirazione per i testi delle proprie canzoni in molti erano convinti di poter cambiare il mondo.
Le fucilate di Dallas avevano poi scalfito tutte quelle certezze. Di quel movimento era rimasto ben poco nel 1966. Alle discussioni politiche si stavano via via sostituendo viaggi di tipo chimico ed oppiaceo e qualcuno stava cercando di spaccare a mezzo le porte della percezione per passare dall’altra parte, quella oscura, quella dell’Edipo paranoico che “padre, voglio ucciderti; madre voglio scoparti”. Buckley sembrava fuori tempo massimo.
La sua era stata una delle tante famiglie che avevano attraversato l’America da una sponda all’altra. Dai sobborghi periferici di New York alla California. Là aveva iniziato gli studi e sperava di diventare un giocatore di football. Una mano devastata da uno scontro di gioco segnò la fine della sua carriera sportiva ma, in un certo senso, fu la sua fortuna. A causa di quella menomazione, Tim non fu mai in grado di suonare un barrè, dovendosi inventare così uno stile fatto di accordi aperti, rivolti, settime e none aumentate e diminuite.
Fra le coffee-houses di Los Angeles e quelle di New York c’era un viaggio a ritroso da compiere. Quel viaggio da una costa all’altra, celebrato da quel vagabondo bugiardo di Jack Kerouac, l’avrebbe portato fino al Greenwich Village, in un eterno peregrinare a ritroso ma, ancora una volta, in ritardo. O in anticipo su tutti. Buckley si portava in dote una chitarra dodici corde, un amico poeta, Larry Beckett, a scrivergli testi visionari che perfettamente si sposavano con le sue melodie sospese e la sua voce dal vibrato celestiale, e una giovane moglie con seri problemi di isteria, sposata forse troppo avventatamente, e che di lì a poco gli avrebbe dato un figlio, il cui destino, quasi come in un racconto mitologico, si sarebbe compiuto poco più di trent’anni dopo sul letto di un fiume.
Il suo viaggio sarebbe durato un decennio. Dagli esordi, a poco più di diciotto anni, nel 1966, alla morte, nel 1975, Buckley fu in grado di creare architetture luminose e distruggerle con le sue stesse mani a furia di picconate.
Il Cielo, o chi per lui, l’aveva dotato di uno strumento fuori dalla norma. La sua voce. Un’estensione incredibile, capace di passare da profondità sulfuree a voli clamorosi, picchiate e impennate. Il suo canto era una continua corsa sulle montagne russe. Si può dire che i suoi studi tecnici abbiano influenzato chiunque abbia voluto cimentarsi con la ricerca dei limiti estremi dell’utilizzo della voce umana.
Non è un caso che uno dei suoi collaboratori più stretti e longevi, il chitarrista Lee Underwood, i cui ricami hanno accompagnato Buckley lungo gran parte della sua carriera, abbia paragonato la sua importanza a quelle di Trane, di Hendrix e di Cecil Taylor. Un pioniere, insomma.
Quando Jac Holzman, lo stesso che aveva fatto firmare un contratto al profeta ebbro Jim Morrison, lo accolse nelle fila della sua Elektra Records, in realtà pochi credevano che di lì a poco Buckley avrebbe destrutturato la musica rock, liberandola dai vincoli tonali e melodici, sulla scorta dei lavori di Schönberg e Berio nella musica colta europea e di Ornette Coleman e Cecil Taylor nel jazz. Il risultato fu enorme sul piano artistico ma sostanzialmente nullo dal punto di vista del successo di pubblico. La Elektra, dopo avergli accordato fiducia per tre album, non sapeva che farsene di lui. Pochissime le copie vendute, pochissima l’attenzione del pubblico e della critica, ingiustamente distratta di fronte alla grandezza di album come Goodbye and hello, che mostrava il suo lato più cantautorale, e Happy sad, decisamente più orientato alla sperimentazione ed alla rottura e dilatazione della forma-canzone tradizionale.
Tuttavia, l’etichetta di Holzman l’avrebbe maldestramente richiamato nei ranghi dopo poco più di un anno e la pubblicazione del più classico Blue afternoon per la Straight, la neonata label di Frank Zappa. Il risultato era stato un disco cerebrale e articolato ma dai risultati artistici altalenanti, Lorca.
Tuttavia, il biennio 1969/1970 costituì per Buckley una lunga, estenuante, febbrile ed unica session, da cui nacquero i due dischi appena citati e, come esito finale, il suo capolavoro assoluto, Starsailor, dove le tensioni intraviste nei dischi precedenti si facevano carne e sangue, sussurri e grida allo stesso tempo. Buckley rompeva qui definitivamente le barriere di spazio e tempo, compiva un salto in un cerchio infuocato fatto di autodistruzione (la scimmia dell’eroina già da diverso tempo gli ballava sulla spalla) e di follia artistica ed umana più o meno lucida.
Il folk, il blues, le avanguardie, il jazz erano triturati e partoriti sotto una nuova forma da quell’enigmatico artista che dietro il volto angelico mostrava la propria anima scarnificata ed incapace di trovare respiro.
Ovviamente, nessuno o quasi lo capì. E Buckley, rimasto senza un soldo e sempre più sbilanciato verso l’abisso dal peso della propria dipendenza, sparì dalla circolazione. Si dice che abbia fatto l’autista per quasi due anni mentre si ripuliva dall’eroina. Fatto sta che quando ritornò sulle scene, del folle sperimentatore di qualche anno prima rimaneva ben poco.
Probabilmente neppure lui capiva il perché dell’indifferenza del pubblico nei suoi confronti.
Nel 1972, Tim Buckley è un uomo che, nonostante la disintossicazione dalle droghe, vive una vita fatta di intimi contrasti e frustrazioni. Ma le sue tensioni esistenziali non sfociano più nella sperimentazione musicale e nella ricerca di nuove vie artistiche. Ora la sua ossessione è il mondo dello show business, quell’ambiente per il quale nutriva sentimenti contrastanti. Da una parte l’odio profondo per un mondo che gli pareva finto ed ingannevole e dall’altra uno sfrenato desiderio di partecipare anche lui al banchetto degli Epuloni del rock.
“Mi sono reso conto che tutti quelli che sono considerati dei sex symbols del rock and roll, come Mick Jagger o Jim Morrison, non hanno mai veramente detto nulla di sessualmente esplicito, così io voglio sfidarli su questo campo”. Così parlava Tim Buckley in un’intervista di quel periodo. Assieme al disincanto, in lui cresce la voglia di provocare. Così, dalle sospese atmosfere liriche, sempre in bilico fra sogno e follia, con Greetings from L.A. si assiste a un brutale cambio di rotta. È il sesso, nel suo aspetto più selvaggio e ancestrale, l’oggetto intorno a cui gravita il nuovo corso di Buckley. Il sesso come pulsione pre-edipica, animalesca, dove la donna e l’uomo diventano oggetti l’uno per l’altro e l’aspetto mistico dell’amore viene ridotto a componente marginale. “Vieni, picchiami, frustami e picchiami sul culo”. Così recita Make it right. Spariscono anche le celestiali dissonanze di Starsailor. Ora a accompagnare le grida sensuali e mai così negroidi di Tim Buckley è un torrido e sudatissimo tappeto di rythm’n’blues con accenti di funk rock.
Difficile capire quanto ci sia di autentico in questo nuovo corso di Tim Buckley e quanto dai solchi emerga una crescente insoddisfazione per tutto ciò che lo circonda. Non ci sono più le droghe, c’è una nuova moglie, questo è vero, eppure nulla sembra soddisfarlo. In più, i soldi scarseggiano e neppure il nuovo disco riesce a sfondare le porte del successo, nonostante vendite certamente migliori che in passato. La sua ricerca musicale si è oramai interrotta e converge su uno sbiadito soul-pop, che scimmiotta le produzioni di Al Green e cerca disperatamente di conquistarsi uno spazio nel mondo del pop, dal quale era finora sempre rimasto estraneo. Persino la voce, quello strumento perfetto che aveva spinto al limite delle sue possibilità, è usato ora sotto le sue possibilità. Buckley è diventato un cantante “normale”, con un timbro peculiare ma nulla più. Lui che “normale” non era mai stato.
Così, nelle sue ultime uscite, oramai pare di assistere alla disgregazione artistica di quello che era stato uno dei più grandi geni della storia del rock. Buckley appare oramai incapace di comporre brani validi e gli unici barlumi della grandezza che fu si intravedono quando interpreta brani a lui cari di altri autori, come Martha di Tom Waits o The dolphins di Fred Neil, forse fra tutti l’autore che più l’aveva ispirato all’inizio della carriera.
Il declino artistico, ironia della sorte, coincide con la sua fine terrena. Siamo nel 1975. Dopo un concerto promozionale del nuovo (e deludente) album Look at the fool, i ragazzi della band sono su di giri. Ci sono le ragazze e c’è tanto alcool. A un certo punto spunta fuori dell’eroina. Tim è pulito da un pezzo. A dire di tutti, il suo morale è alle stelle e il suo fisico è finalmente tornato a posto. Stupisce tutti, quindi, che quella sera voglia farci un giro. Ma si dimentica di essere un ex-junkie: quello che era normale ai tempi della sua dipendenza oramai non lo è più. “Bye bye, baby”, le sue ultime parole. Sipario. E, ironia della sorte, nemmeno la morte fu in grado di dargli quella celebrità che aveva sempre ed inutilmente inseguito.