Raramente come in queste poche settimane, fra la fine del 2015 e l’inizio del 2016, si è assistito alla morte in sequenza ravvicinata di tanti personaggi famosi. Musicisti rock (Lemmy e David Bowie) e attori (Franco Citti e Alan Rickman). A parte l’ex accattone di Pasolini, morto a 80 anni, dopo alcuni ictus, gli altri tre sono poi stati accomunati da curiose coincidenze: tutti inglesi, tutti la stessa età (69 anni), tutti morti di tumore. Ma questo è solo un dettaglio, di quelli che piacciono tanto sui social network, che si sono impegnati (ma lo hanno fatto anche importanti giornali) a tirare fuori l’usuale fiera delle banalità, come la “maledizione di Aaron Ramsey”, un calciatore gallese che ogni volta che segna un goal nel giro di 24 ore muore una celebrità. Cose brutte, squallide, piccole, anche cattive che la dicono lunga su tante cose, ad esempio il basso livello raggiunto dalla nostra civiltà dal punto di vista dell’umano e del rispetto davanti alla morte. C’è già che sta facendo la lista dei personaggi famosi inglesi di 69 anni per capire chi sarà il prossimo a morire.



Ma coloro che sono venuti a mancare in questo periodo, visto il loro ruolo pubblico, sono stati anche accomunati da una manifestazione di empatia come raramente nella storia recente.

La morte di David Bowie è stata vissuta a livello globale, con headline che neanche la morte di un pontefice, stupendo anche gli stessi fan del musicista. La morte di Severus Piton della fortunata saga di Harry Potter poco meno, con mazzi di fiori alla stazione londinese di King’s Cross, da cui nel film partiva il treno che portava gli studenti di magia,  sotto alla targa del misterioso binario 91/2, con un mezzo carrello portabagli con tanto di valigie nell’atto di penetrare il muro di mattoni. Come se lui, l’attore, fosse diventato più il personaggio interpretato che l’uomo reale.



C’è anche altro che accomuna la morte di Bowie e di Rickman. I commenti più frequenti sono stati (e sono) del tipo: è morta la musica; pensavo fosse immortale; maledetto 2016; se ne stanno andando tutti i più grandi; adesso siamo soli; perché sempre i migliori?

E’ una visione della morte e del ruolo dei personaggi pubblici che dice due o tre cose della modernità. Eliminato Dio ormai da tempo, abbiamo bisogno disperato di personaggi che ne prendano il posto. Superuomini in grado di rappresentare e raccontare tutto il nostro desiderio di bellezza, felicità, compimento. Per questo non devono permettersi di morire, non ci possono lasciare soli. Se mancano loro, dove mi metto a guardare? Abbiamo bisogno di eroi, piuttosto, nell’accezione che questo termine aveva nell’antichità. Oggi scarseggiano in modo inquietante, ed è anche questo un segno dei tempi. Ma la grandezza di un eroe, diceva Bob Dylan, è quella di una persona che prende responsabilmente la sua vita. “Heroes”, nella quotidianeità, lo siamo tutti, ma preferiamo abdicare al nostro essere eroi quotidiani. Lo cantava proprio David Bowie, ispirandoci a essere eroi quotidiani.



Il secondo aspetto è quel vacuo eppure persistente senso di rabbia perché qualcuno che ci rappresentava, ci ispirava o ci appassionava così tanto ci è stato portato via. Questo succede perché invece di riflettere sulla mortalità che accomuna tutti, star e senza tetto della Stazione Centrale, ci è insopportabile pensare alla finitezza della vita, pensiero che come Dio è stato eliminato o si cerca di eiliminare costantemente. La morte non fa parte del mondo del terzo millennio. Per cui è più facile accanirsi contro il fato oppure, in modo che risuona di una ironia formidabile, contro Dio che è cattivo, ed è così che quello stesso Dio precedentemente fatto fuori torna a essere invocato, anzi maledetto. Torna per essere insultato, perché apparentemente non soddisferebbe quello che ci aspettiamo. Come quando succede una disgrazia, un terremoto, uno tsunami: Dio non può permettere queste cose. 

Viene tirato in ballo solo in queste situazioni, per accusarlo, perché quello che vogliamo è che la vita e il mondo corrispondano in tutto e per tutto alla idea che ne abbiamo, che non concepisce errori, tragedie, delusioni, fatica, contraddizioni. Ma soprattutto è la dimostrazione che con Lui è impossibile non fare i conti.

Ma tra le tante cose meravigliose che questi personaggi straordinari ci hanno lasciato (la loro arte, la loro umanità, il loro desiderio di bellezza) c’è anche un’altra cosa per cui ringraziarli: ricordarci che dobbiamo morire e che nessuno lo può fare al posto nostro.

Invece, sorta di agnelli sacrificali, vogliamo che muoiano anche per noi, togliendoci il disturbo di pensare alla nostra fine e a tutto quello che significa.

Lo hanno fatto in maniera straordinariamente dignitosa, Bowie, Lemmy e Rickman e sicuramente anche Franco Citti. In silenzio e rispettando la loro umanità e di chi gli stava vicino. Nel 1999, ricevendo una laurea honoris causa al Berklee College of Music di Boston, Bowie rilasciò un discorso, le cui ultime parole suonano oggi come un epitaffio straordinario e che sicuramente risuoneranno più a lungo dei commenti dei social network: “La musica mi ha dato oltre quarant’anni di esperienze straordinarie. Non posso dire che i dolori o episodi più tragici siano stati diminuiti grazie ad essa. Ma mi sono stati permessi tanti momenti di compagnia quando ero solo e un mezzo di comunicazione sublime quando ho voluto toccare le persone. La musica è stata la mia soglia di percezione e la casa in cui vivo. Mi auguro solo che abbracci anche voi con la stessa forza lussuriosa che gentilmente ha offerto a me. Grazie davvero e ricordate… se prude, grattate”.
Non è stato da meno Rickman: “E’ un bisogno antico quello di farsi raccontare storie. Ma la storia necessita di un grande narratore”.