In Italia non ascoltiamo molta musica straniera, non l’abbiamo mai fatto. Come popolo, noi italiani abbiamo sempre avuto una conoscenza piuttosto sommaria dell’inglese e la predominanza che nella nostra tradizione musicale hanno sempre avuto l’opera e il cantautorato, hanno fatto sì che la nostra attenzione ai testi fosse stata sempre superiore alla norma. 



“Non ascolto musica in inglese perché non capisco le parole” è il classico ritornello che ho sentito ripetere migliaia di volte sin da quando ero alle scuole medie e molto probabilmente è un qualcosa che ci ha influenzati un po’ tutti, come ascoltatori. 

Che poi è una cosa assurda perché nella musica rock in particolare, per quanto possa essere importante il testo, esso rimarrà sempre secondario rispetto alla musica. Quello musicale è un linguaggio a sé e per quanto ciò che viene cantato possa essere importante, una canzone rimane una bella canzone anche se il testo non è poi così significativo.



Anche perché, sono considerazioni che faccio da tempo, scrivere buona musica e scrivere belle parole sono due cose radicalmente differenti. Non tutti possono essere Bob Dylan, per dire. E se ci sono band che hanno al loro interno dei componenti che sanno esprimere una visione delle cose e a comunicare pensieri non banali in una lingua che possiede anche un valore letterario (vedi i Radiohead, ad esempio, ma anche gli Smiths o gli Arcade Fire, giusto per citare i più conosciuti), non è scontato che debba essere così e, se uno dei due elementi deve mancare, è sempre meglio che manchi un buon paroliere, altrimenti difficilmente quel gruppo andrà lontano. L’esempio dei Led Zeppelin, da questo punto di vista, potrebbe bastare per tutti. 



Tutto questo per dire che i Daughter sono una di quelle band di cui è obbligatorio leggere i testi, se si vuole farne un’esperienza completa.

Loro sono in tre, sono di Londra e nascono di fatto come un progetto solista di una giovane cantante e autrice di canzoni, Elena Tonra, che avrebbe poi trovato in Igor Haefeli (chitarra) e in Remi Aguileila, (batteria) i partner ideali per accompagnare le sue composizioni. Hanno registrato due ep di ottimo livello, che hanno riscosso consensi positivi ovunque e hanno tenuto alta l’attenzione su di loro fino al 2013, quando è uscito il loro primo album, “If You Leave”. Che, detto per inciso, è uscito pure per la 4AD, una delle etichette indipendenti più importanti e valide al momento in circolazione. 

Hanno fatto un bel successo, i Daughter, di sicuro di più di quanto ci si aspetterebbe da una band indipendente: il loro singolo “Youth” è stato usato in alcuni spot televisivi e in alcune serie di successo tra cui “Grey’s Anatomy”. 

E forse non è neppure così strano: nonostante il suono a tratti minimale e le atmosfere malinconiche, il terzetto britannico è sempre stato bravissimo a confezionare canzoni che giocassero ad ampio raggio con il rock, il pop e il folk degli ultimi decenni  in una miscela comunque sempre strettamente personale. Di nomi ne sono stati fatti un po’, dagli XX a Bon Iver, ma la verità è che definire i Daughter in una parola o attraverso paragoni coi colleghi è abbastanza difficile. 

L’unico dato certo è che scrivono benissimo. Sono tristi, oscuramente romantici, talora sembra che traducano in chiave acustica la lezione della New Wave e la voce della Tonra, pur sempre drammaticamente al centro di ogni pezzo, è al servizio di un lavoro strumentale tra i più stupefacenti che mi sia capitato di sentire negli ultimi anni. 

Ho letto che sono stati pure assegnati a qualche concorrente durante l’ultima edizione di X Factor: da una parte è bello vedere che qualche giudice capisce ancora qualcosa di musica, dall’altro però è innegabile che, dietro la loro facciata dimessa, abbiano una potenzialità commerciale che tanti dei loro colleghi non hanno. 

Ora, a quasi tre anni da “If You Leave”, arriva fresco fresco questo “Not To Disappear”, a cercare di dimostrare che i loro autori non si perderanno assieme a tanti, troppi esordienti degli ultimi anni, ma sapranno portare avanti un cammino tutto loro. 

Era stato anticipato a fine anno dal singolo “Doing The Right Thing”, un brano oscuro e a tratti ossessivo, dotato di una splendida linea melodica, che aveva messo subito in chiaro che la band inglese era sempre lì a scrivere canzoni di gran classe, che non sarebbe diventata più allegra e neppure avrebbe cercato di comporre una hit per scalare le classifiche. 

Impossibile dire adesso se si tratti di un disco musicalmente migliore del suo predecessore. Senza dubbio il livello è alto e ci sono già diversi episodi che colpiscono al primo ascolto e che nei prossimi mesi ci saranno già entrate dentro. 

Lo stile è sempre quello anche se differenze ce ne sono: c’è sicuramente una maggiore ricercatezza sonora, che si traduce soprattutto nel gioco tra il pieno e il vuoto creato dai vari strumenti, con esplosioni chitarristiche alternate a parti maggiormente soffuse e a tratti sospese. Un gran bel lavoro di arrangiamento e di esecuzione, insomma, con un uso sapiente dell’elettronica, mai troppo presente ma sempre collocata nei punti giusti, ad arrotondare il suono. 

E poi, se nel complesso si può dire che la formula stilistica sia stata applicata nuovamente, è pur vero che qua e là si intravede un tentativo di rendersi leggermente più immediati e lineari, anche se non sempre con risultati totalmente positivi (brani come l’opener “New Ways”, “To Belong” o la conclusiva “Made of Stone”, almeno dai primi ascolti, sembrano di livello inferiore rispetto agli altri episodi). Dall’altra parte, colpisce una certa voglia di “sperimentare” (detto tra virgolette perché non siamo di fronte a chissà che cosa), soprattutto con il ritmo e le distorsioni: “No Care” ha un basso pulsante ed è sorprendentemente veloce per i loro standard. “Fossa” presenta invece una gran pienezza di chitarre e contiene un’accelerazione inaspettata nel ritornello, due elementi che la rendono un possibile indizio di una eventuale direzione futura di questa band. 

E i testi, ancora una volta, sono da leggere. Elena Tonra è sempre stata una ragazza che, oltre a cantare bene, ci sapeva anche fare con le parole ed è sempre stata una bella esperienza ascoltare quel che aveva da dire. 

“Not To Disappear”, si intitola il disco. Già, che cosa ci tiene su, nella vita? Che cosa ci permette di non scomparire? Perché abbiamo tutti una grande, enorme paura di svanire, di non lasciare traccia, di vivere inutilmente, di essere dimenticati dalle persone che ci volevano bene. Oppure di trascinarci stancamente, come fantasmi, come l’anziano signore protagonista dello straziante video di “Doing The Right Thing”, che sembra condurre un’esistenza ormai priva di scopo. 

Verrebbe da dire che è l’amore, ciò che ci tiene in piedi. Trovare qualcuno da amare, qualcuno con cui condividere la vita, forse questo potrebbe darci la sensazione di essere serviti a qualcosa. 

Ed è proprio l’amore l’argomento principale delle dieci canzoni che compongono il disco. Per tutto l’arco dei suoi 45 minuti di durata, la Tonra sembra riflettere sulle relazioni di coppia, sulle sue, in particolare ma purtroppo, il quadro che ne viene fuori non è per niente rassicurante. 

“È da un po’ che provo a uscirne, a trovare una discreta via d’uscita, senza cancellarmi e basta, senza scomparire e basta – canta nella traccia di apertura “New Ways”. È da un po’ che provo a restare fuori ma c’è qualcosa, in te, senza cui non riesco a vivere, qualcosa che ho bisogno di avere qua con me”. 

Come a dire che il legame soffoca, si può scomparire anche all’interno di un rapporto, ma comunque accettare la solitudine non è facile, c’è sempre qualcosa dell’altro che non riusciamo a lasciare andare, anche quando forse sarebbe meglio farlo. 

E nel già citato singolo sembra considerare l’idea del matrimonio, dei figli, della famiglia. Sono cose che tutti fanno, fanno parte dell’esistenza ma non per questo vanno date per scontate, non si può pensare di farlo solo perché “Siamo nati per riprodurci”, come canta nella prima strofa. Non è così semplice, bisogna volerlo davvero. Ma lei non sembra riuscire a decidersi, per il momento. E allora ecco il mondo, ecco la realtà, affermata nella sua testarda consistenza: “E allora mi toglierò i vestiti e così andrò in giro, perché è bello essere all’aperto e mi piace sentire il sole addosso. E quando sarà buio chiamerò il nome di mia madre, nella notte, ma lei non tornerà a prendermi perché se n’è già andata”. 

Ancora una volta l’angoscia, ancora una volta la solitudine, ancora una volta l’abbandono. C’è una domanda più straziante in “How”: “Per quanto dovrò restarti ad aspettare, rovinata, di sera? Come posso fare ad aspettarti per diventare quello che ho bisogno di diventare?”. 

Già, perché l’altro può essere lì accanto a noi ma non è mai chiaro come ci si debba relazionare con lui. Si ha bisogno dell’altro ma nello stesso tempo lo si teme, si avverte il peso della solitudine ma nello stesso tempo si ha paura di sacrificare i propri spazi per far entrare qualcuno che sarà sempre irriducibile alla nostra immaginazione. 

Scaturisce da qui, il dramma di “Alone/With You”, che non a caso gioca sull’inquietante parallelismo di due situazioni in teoria diametralmente opposte: “Odio dormire da sola, impaurita, con le luci spente. Odio vivere da sola, con me stessa ho solo conversazioni noiose. Non sono amica di me stessa: il mio io è solo un conoscente. Odio dormire con te perché non ci sei mai. C’è solo una figura ombrosa dal viso vuoto, che mi caccia via da casa sua. Un tempo eravamo amici, e ora sei solo un conoscente”. 

Il disco in effetti si muove su queste coordinate: l’amore è una cosa indispensabile ma è una cosa tremendamente complicata, finisce e fa soffrire. In “Mothers” sembra esserci un commiato denso di amarezza: “Beh, ama tutto ciò che hai bisogno di amare prima che se ne vada, non so quando il tuo viso diventerà quello di un estraneo. Non ricorderai mai quello che significavo per te, portato nel grembo di una madre fredda, portando le ferite di una madre fredda”. 

“No Care” (titolo che è già tutto un programma) contiene una domanda di intensità e verità che sembra però affondare nella consapevolezza della propria impotenza: “Quanto volevo una tua promessa che avremmo sempre fatto solo l’amore, ma era come se stessi soffocando, pezzi di vetro nella mia bocca. E allora ho cercato di dimenticare dormendo.” 

E poi “Fossa”, con quel suo titolo esplicito che va ad evocare la tomba dove tutti dovremo finire. Una tomba nella quale, spesso e volentieri finiscono le relazioni, e questo accade normalmente nel momento in cui si capisce che l’immagine che tendiamo a proiettare sull’altro è destinata sempre e comunque a rivelarsi fallace: “Ricordo l’immagine che ho provato e provo a proiettarti e non faccio che illuderti. Penso di stare impazzendo. Sì, a volte mi sento di essere la persona che vuoi. Posso essere la persona che vuoi. Non posso essere la persona che vuoi. Lo so che è colpa mia: tu sei impegnato a spingerti ancora più in fondo e io mi sento sola”. 

Il disco si conclude mestamente lasciandoci con un interrogativo: a che cosa serve amare se “L’amore non è altro che dipingersi il viso. L’amore è solo rendere più leggero il nostro attendere la morte senza un compagno”? 

Qui in primo piano c’è la sofferenza, non certo la gioia della scoperta. Tanto che il verso finale con cui si conclude la canzone “Made of Stone” e il disco stesso (“Troverai l’amore, ragazzo, esiste.”) non si capisce che si debba intenderlo come un augurio o una minaccia.

Sia come sia, riconfermarsi al secondo disco non è mai stato semplice per nessuno e il valore indubbio di questo disco ci dice che abbiamo davanti una band di livello superiore: personalmente lo avevo già capito dopo “If You Leave” ma è bello vedere che non avevo preso una cantonata. 

Ascoltare le canzoni e leggere i testi, questa volta è un tutt’uno che non può essere separato.