Esistono le giornate differenti, quelle che ti rimangono addosso, che ti sorprendono fin dal risveglio. Sono le notizie che ti trafiggono come una pugnalata, quelle di fronte alle quali rimani incredulo, sbigottito, e alla fine in silenzio.

David Robert Jones è deceduto pochi giorni dopo il suo 69esimo compleanno, e la pubblicazione di un album bellissimo, che diventa a tutti gli effetti il suo testamento, la sua opera ultima, l’epitaffio sublime composto per il suo passaggio verso l’eternità.



Ripercorrere alcune tappe della sua incredibile carriera discografica è come il tentativo di grattare via il dolore, oltre la gelida superficie di una tomba. Rivivere alcune pagine, fra quelle che hanno segnato la cultura, lo spettacolo e la vita di tanti fra coloro che hanno amato la sua musica, il suo essere artista oltre gli schemi, e la sua capacità di evolversi in maniera continua e senza rivali. Un racconto che inizia dalla fine del 1970. 



I Beatles non esistevano più, Woodstock aveva celebrato e polverizzato in pochi giorni tutte le utopie e le liturgie che la cultura giovanile aveva edificato in un decennio, dalla contestazione di Berkeley fino al maggio francese, riassumendo nell’orgia hippy la Nuova Comune tutta “Pace”, “Amore” ed LSD.

Janis Joplin, Jimi Hendrix e Jim Morrison ci avevano detto addio nel modo peggiore.

L’uomo era sbarcato sulla Luna l’anno prima, in una calda notte di luglio, e Stanley Kubrick ci aveva regalato la sua “Space Odissey” in cui il Superuomo dell’Età dello Spazio prendeva forma dal corpo dell’astronauta David Bowman



David Robert Jones, artista poco più che ventenne, tenacemente deciso ad entrare nell’Olimpo del Pop britannico, aveva da pochi anni mutato il suo cognome originale in “Bowie”, al fine di evitare confusioni deleterie col più famoso cantante dei Monkees. Dopo diversi tentativi naufragati attraverso un album omonimo di nessun successo e singoli passati sotto silenzio, aveva finalmente centrato il bersaglio con una canzone, “Space Oddity”, che lo aveva letteralmente catapultato nella “Top Ten” inglese. L’album che seguì il singolo, “Man Of Words, Man Of Music”, peraltro, non ottenne il successo sperato, rischiando di far nuovamente naufragare le belle speranze di questo “cantautore” al centro di un incrocio tra Bob Dylan, Syd Barret, Buddismo e visioni fantascientifiche tipiche di un decennio intriso di progresso scientifico e di giovanilismo dionisiaco e sognatore. David Bowie pareva condannato a rimanere un’eterno  “One Hit Man”. Anche le altre esperienze artistiche legate al suo laboratorio artistico di Beckenham languivano. 

E’ in questo clima che si consuma l’approdo alla nuova graffiante immagine e all’esplosiva incisione di “The Man Who Sold The World”, album che impose il nuovo Bowie all’occhio della critica, seppure ancora una volta snobbato dal grande pubblico, specialmente in patria. Leggermente meglio andò in America, ove l’album godette di un potente lancio pubblicitario della Mercury, il cui responsabile per gli U.S.A. Robin MacBride definì il disco come “una straordinaria creazione nell’ambito della musica rock”. 

Un album notevole: contiene una sorta di rock duro e cupo, con arrangiamenti “progressive” a base di moog e mellotron, che conferiscono una nota elettronica al suono aspro delineato con forza dalla chitarra di Mick Ronson, entrato ora a far parte del gruppo base di David. E’ da qui che si scavano le fondamenta per l’incredibile successo che arriverà solo due anni dopo.

Si tratta dell’album più estremista mai composto da Bowie in tutto il decennio che seguirà: in esso si respira un’atmosfera insieme rarefatta ed aggressiva in cui le liriche sono saette che trafiggono con la loro rigenerazione nervosa, languida e brutale. I personaggi e le situazioni che sono descritti nelle canzoni dell’album non lasciano adito ad alcuna lettura ottimistica della vita. Follia, schizofrenia e visioni di universi dominati da feroci dittatori si alternano con melanconici ritratti di sofferenza e quotidiana disperazione. La title track rimarrà per tantissimi anni una sorta di “capolavoro nascosto”, fino a quando i Nirvana la incideranno per un loro album unplugged nei primi anni ’90. Il disco rompe con le visioni ottimistiche ed illusorie della cultura hippy del decennio precedente, e fa da apripista al nuovo decennio che sta per iniziare la sua folle corsa

Bowie pigia sull’acceleratore del rock con un atteggiamento incredibilmente maturo e personale, supportato da una band che ha in Mick Ronson la futura spalla degli Spiders From Mars, la cui chitarra irrora la musica incisa nel disco di sibilante libido elettrica in modo diretto, maestoso, nervoso ed essenziale, senza la benché minima sbavatura, alternando silenzi ad improvvise eruzioni vulcaniche, nel solco dello spirito di un album, che, concepito inizialmente diviso in due parti, una acustica ed una elettrica, fu in seguito completamente ripensato, e registrato in un perfetto equilibrio di luci e di ombre, di  flash che si accendono nell’oscurità più profonda, come archetipi che emergono dall’inconscio più profondo, spiriti che emergono dalle tombe, i cui  corpi di appartenenza  sono condannati a trasformarsi con il tempo in granelli di polvere, ed infine, nel nulla.

 “The Man Who sold The World” è  una sorta di catarsi umana ed esistenziale di un geniale compositore, che esplode con deliberata virulenza il proprio dionisiaco desiderio di affermazione e la propria vitalistica creatività, rimasta fino a quel momento inespressa, attraverso una supernova di suoni, parole e visioni. Non esiste più spazio alcuno per le liturgie sixties, e relativi orpelli e corollari di illusioni da comune un po’ hippy e sci-fi che avevano caratterizzato il precedente “Man Of Word, Man Of Music”. Il discorso è fortemente e consapevolmente incentrato sull’individuo, la sua condizione in un mondo alienante ed alienato, la consapevolezza che tutto potrebbe essere perduto in un attimo, e che la vita quotidiana è un bluff a cui sottostare con fatica e sforzo, un universo in cui i mostri più terribili possono addirittura annidarsi dentro di noi. 

Questo album apre le porte agli anni settanta, alle sue fobie ed alle sue paure, contagerà con la propria carica eversiva tutti coloro che si confronteranno con esso, la sua musica e le sue tematiche terribilmente “oltre”. Il suo nichilismo travolgente e spudorato lo renderà un manifesto che costituirà la boa naturale tra gli anni sessanta ed i settanta, una sorta di naturale cinghia di trasmissione, le cui tematiche influenzeranno l’Autore stesso per tutto il decennio ed oltre. Un album straordinario, che, passato quasi sotto silenzio durante la “golden age” bowiana, è costantemente cresciuto nel tempo, fino a diventare lo scopo di un tour di Mick Woodmansey e Tony Visconti, decisi a riproporlo dal vivo con una band formata insieme al cantante Glen Gregory, a testimonianza di un contenuto estremamente d’avanguardia per l’epoca in cui fu composto.

Il successo arriva, dopo un altro album splendido “Hunky Dory”, completamente differente dal precedente, dove l’artista si confronterà con Dylan ( a cui dedicherà addirittura una canzone) e ai Velvet Underground, strizzando l’occhio ad Andy Warhol, anch’egli raccontato in un brano del disco.

Un successo che pare essere l’esplosione di una supernova, attraverso una stagione veloce come una saetta, fulminante come una scarica elettrica che porterà con sé tutta la febbrile vivacità del rock’n’roll rivitalizzato nella sua essenziale semplicità e arricchito di un apparato scenico incredibile. Fino alla sua consumazione, attraverso due album che avevano fatto centro, portando David Bowie ad un successo incredibile. Nel corso del 1973 i suoi primi lavori erano stati ristampati dalla RCA ed erano entrati prepotentemente in classifica sull’onda del successo di “The Rise And Fall Of Ziggy Stardust”. 

“Aladdin Sane” aveva centrato il primo posto soltanto con le prenotazioni, prendendosi il lusso di schiacciare sotto i propri piedi il prisma dei Pink Floyd che raccontava il lato oscuro della Luna. La sua copertina sarebbe rimasta un’eterna icona della cultura rock, giunta fino a noi, oggi.

Ma il 3 luglio, all’Odeon di Hammersmith, le urla di giubilo del popolo di Ziggy Stardust si erano improvvisamente trasformate in un unico grido di dolore all’annuncio della morte dell’Alieno venuto da Marte. David Bowie aveva ucciso con un colpo di pistola Ziggy Stardust, “freddandolo” alle spalle con la spietata determinazione di un killer che eliminava un testimone scomodo ed ingombrante sulla via della propria affermazione artistica, come fosse un pericoloso replicante da assassinare, occultandone poi il cadavere ancora caldo dopo la feroce esecuzione. 

Ziggy Stardust se ne andò lasciando migliaia di orfani in cerca di una ragione e di un perché. Il personaggio aveva sfondato letteralmente le porte della morale borghese di quegli anni, attraverso la proclamazione quasi banale che amare era sempre e comunque un diritto, oltre che un piacere, qualunque fosse il modo in cui lo si facesse. Quello era stato una sorta di “passe-partout”, che aveva imposto Bowie-Ziggy agli occhi di una gioventù che si scopriva d’un tratto libera di fronte alla possibilità di scegliere come essere, chi essere, senza la paura di dover essere qualcosa d’altro al di fuori di sé stessa. 

Le ballate splendide, la teatralità durante i concerti, il corredo di mimi e i riferimenti musicali ad un rock’n’roll rivisitato nella sua forma più elementare e nello stesso tempo rivisto e corretto secondo il gusto prettamente contemporaneo, avevano portato “The Rise And Fall Of Ziggy Stardust And The Spiders Of Mars” a diventare l’album dell’anno, e a fare di Bowie-Ziggy un feticcio da venerare in maniera viscerale, almeno tanto quanto veniva deriso o disprezzato da chi lo considerava negativo o addirittura perverso. 

Uscì “Pin Ups”, dal sapore di album quasi postumo, dove Ziggy e Twiggy si concedevano agli occhi del pubblico, in una copertina destinata a rimanere iconica nell’immaginario del rock di quegli anni. Lo scopo di quell’album era chiaro: David Bowie si inseriva di prepotenza nel filone del miglior rock inglese. L’anno precedente aveva reinterpretato “Let’s Spend The Night Together” dei Rolling Stones, fornendo una prova di straordinaria energia, tanto da far apparire l’originale come una copia sbiadita della sua cover. 

(fine prima parte)