La California del sud è un piano inclinato dove rotola tutto quello che arriva dall’est, e qui si ferma. Così il grande scrittore noir losangeleno Raymond Chandler descriveva quel pezzo di terra che confina con l’immenso Oceano Pacifico e che sembra delimitare la fine del mondo, con in mezzo la città degli angeli e del peccato, Los Angeles. Una terra meticcia, di incontri e fughe, di razze diverse che scappano dalla fame e dalla povertà, come i chicanos, dal Messico, o in cerca di un sogno, come i Jack Kerouac di tutta America. Perché la California del sud, quella dell’estate eterna, delle onde dove fare surf, delle belle ragazze in bikini, di Hollywood e delle stelle del cinema, in una parola è la terra promessa, quella che i Padri Pellegrini avevano garantito a tutti i figli fuggiti dalle miserie e dalle guerre dell’Europa. Una terra promessa che man mano che procedeva l’avanzata dell’uomo bianco verso ovest sarebbe inevitabilmente rimasta l’ultima terra disponibile. 



Qui, rotolando anche lui su una vecchia macchina scassata, sarebbe arrivato alla fine degli anni sessanta anche un ragazzo di Detroit, the motor city, una delle città più industrializzate, fredde e sporche d’America, dove chiunque con un po’ di sale in zucca sognava di fuggire. Si chiamava Glenn Frey, aveva militato in qualche gruppetto di rock duro della sua città, perché ogni città produce la musica che la identifica, e si fermò a Los Angeles. Come già la Londra swingin’, la New York del Greenwich Village o la San Francisco di Haight Asbury, L.A. era la nuova mecca della musica, dove chiunque cercava fortuna e gloria si stava dirigendo.



E come era successo, per pura casualità a John Lennon con Paul McCartney a una festa parrocchiale, a Mick Jagger e Keith Richards sulla banchina di una stazione ferroviaria, a Jim Morrison e Ray Manzarek sulle spiagge di Venice, Glenn Frey avrebbe incontrato in uno dei tanti locali del Sunset Strip la sua anima gemella. Si chiamava Don Henley e anche lui era rotolato qui fin dal Texas. 

I due si conobbero perché la cantante Linda Ronstadt cercava una band che la accompagnasse dal vivo e in studio: Glenn Frey, Don Henley, Randy Meisner e Bernie Leadon erano gli uomini giusti. Ma erano talmente bravi che decisero di mettersi in proprio e nacquero gli Eagles.



All’epoca, tra il Laurel Canyon e il Sunset Strip, i musicisti di Los Angeles, sulle tracce di quanto avevano fatto i Byrds di Roger McGuinn e i Flying Burrito Brothers di Gram Parsons, si erano innamorati di questa nuova musica, che mischiava la tradizione popolare con le vibrazioni forti del rock. Erano hippie in cerca di un ultimo sogno da giocarsi. Nonostante avessero in mano un banjo e delle chitarre acustiche, i loro capelli lunghi e i jeans con le toppe non permetteva loro di farsi amare dai cultori della musica country, quegli uomini del sud tradizionalisti e conservatori. Fu così che il country rock venne alla riblata come la musica più amata della prima parte degli anni 70 e il risultato fu uno sfracello di canzoni bellissime.

Ma a differenza del rock e del pop californiano di pochi anni prima, quello tutto “buone vibrazioni”, ottimismo e ragazze che avevano espresso i Beach Boys, gli Eagles avrebbero profetizzato la fine di quel sogno. 

“A Los Angeles, California, città degli angeli caduti, la pioggia è un brutto presagio. Cose strane, cose maledette dilagano a Los Angeles, California, quando il cielo si oscura. Non si sorprende più di tanto, quindi, il detective privato senza nome chiamato a chiarire quella brutta faccenda di relazioni infami, tradimenti incrociati e omicidi facili: in fondo, sta accadendo tutto in un giorno di pioggia” scriveva Raymond Chandler nel suo primo romanzo, e così gli Eagles avrebbero profetizzato quel lato oscuro della California.

Pochi se ne accorsero, in mezzo a quelle armonie vocali celestiali, quei brani apparentemente orecchiabili, quelle chitarre acustiche scintillanti, ma nelle loro canzoni c’era una malinconia e un senso di morte preannunciata che faceva capolino in quelle melodie così struggenti. Glenn Frey fu all’inizio quello che scriveva e interpretava più brani, dal primo hit composto con l’amico Jackson Browne, Take it easy, manifesto di un modo di vivere la vita alla giornata tipicamente californiano. Ma ben presto le note tristi di Hollywood Waltz e quelle oscure e inquietanti di One of These Nights avrebbero annunciato un’altra visione della realtà.

Diventati campioni mondiali di incassi e vendite di dischi, gli Eagles sono stati odiati da molti puristi del rock perché troppo “commerciali”. In una scena cult del celebre film Il grande Lebowski, il protagonista Jeff Bridges, The Dude, mentre è in macchina mette una cassetta degli Eagles e schifato la getta dal finestrino esclamando: odio gli Eagles del c…zzo, infilando prontamente una cassetta dei Creedence Clearwater Revival.

Gli Eagles viceversa erano un gruppo impegnato: furono i primi a occuparsi dei nativi americani, rinchiusi nelle riserve ghetto facendo per loro iniziative di sostegno, così come a sostenere il candidato democratico nella battaglia presidenziale contro Richard Nixon. Non facevano solo ballate “sentimentali” (peraltro bellissime come Tequila Sunrise) ma anche rock, dal vivo pestavano alla grande e il sangue di Detroit di Glenn Frey dettava la linea. Erano snobbati dalla critica rock che non gli perdonava di vendere milioni di dischi, specie quelli del magazine Rolling Stone. Per tutta risposta gli Eagles organizzarono una sfida a baseball, musicisti contro critici. Vinsero alla grande. Incisero uno dei primi concept album della storia, dedicato a un gruppo di fuorilegge dell’ottocento finiti ammazzati, un altro lato oscuro dell’american way of ife, in cui si identificarono e a cui dedicarono uno dei capolavori di quel decennio, Desperado. Erano in fondo dei disperati del rock’n’roll, in cerca di un sogno troppo grande. Ottennero quel sogno ma pagarono un prezzo.

Come tutti i musicisti rock degli anni 70, abusavano di droghe e alcolici, cocaina soprattutto. La registrazione del loro disco capolavoro richiese mesi lunghissimi passati a litigare duramente: da una parte Frey e Henley, autori principi e maniaci del suono più perfetto; dall’altra Joe Wash, Randy Meisner e Don Felder che minacciarono più volte di lasciarli soli. Alla fine il risultato fu Hotel California, disco e canzoni straordinarie. Era il canto di morte del sogno di California e della terra che non aveva saputo mantenere la promessa: puoi prenotare una camera quando vuoi, ma non potrai andartene di qui, diceva la canzone. Un hotel stile quello del film Shining con Jack Nicholson, popolato di presenze inquietanti, fantasmi, champagne e belle donne che come un incubo si dissolvevano all’alba per tornare alle loro vite maledette quando calava il sole. Era anche la fine del sogno degli Eagles: avevano ottenuto tutto quello che la California può dare, ma erano rimasti senza più forze creative.

L’avventura sarebbe finita poco dopo con un ultimo disco. Da solo, Glenn Frey avrebbe pubblicato una manciata di dischi che pescavano nel funk, nel rock duro, un ritorno al suono della sua città di origine, Detroit. Poi con un colpo di genio finale, avrebbe inciso una splendida ballata in puro stile Eagles, Part of Me Part of You inclusa nella colonna sonora del film Thelma e Louise, che sotto alla melodia dolce lanciava un altro avvertimento: “Non possiamo sapere cosa succederà domani, dobbiamo sempre scegliere da che parte andare”. 

Gli Eagles sarebbero venuti in Italia due volte, la prima a Lucca nel 2001 per un concerto indimenticabile. Saliti sul palco con quasi due ore di ritardo (pare fossero impegnati a scegliere l’hotel più lussuoso disponibile, come il loro ruolo di star richiedeva) avrebbero suonato per tre ore senza sosta, regalando emozioni californiane che non erano solo nostalgia, ma una dichiarazione di intenti.

Glenn Frey è morto di problemi che probabilmente sono stati la conseguenza di uno stile di vita perennemente sulla corsia di sorpasso, come diceva un loro brano degli anni 70, Life in the fast lane. O come diceva un altro pezzo scritto e cantato da Frey, Take it to the limit, portare tutto fino al limite possibile: “Quando stai cercando la libertà e a nessuno importa, e non riesci a trovare la porta da nessuna parte quando non c’è più nulla in cui credere, torni indietro e ricominci daccapo”.

“Siamo tutti prigionieri qui, del nostro stesso vizio (…) si rilassi disse il portiere di notte, abbiamo disposizione di ricevere gli ospiti, può cercare di andarsene quando vuole, ma non potrà mai uscire di qui”, cantavano in Hotel California. 

Adesso la porta dell’albergo si è chiusa dietro Glenn Frey per sempre, e le aquile hanno smesso di volare. Oggi a Los Angeles piove, Raymond Chandler fa un cenno con il capo e The Dude ammette sconsolato: non ho mai odiato veramente gli Eagles.