Dentro “Pin Ups” Bowie si misurava con brani dei Pink Floyd di Syd Barret , degli Who e dei Kinks, con la feroce determinazione di chi non temeva il confronto, anzi lo cercava con una sicurezza quasi spavalda, essendo sicuro di vincere la scommessa. Nei fatti “Pin Ups” centrò l’obiettivo del primo posto nelle classiche del Regno Unito, cosa non facile, vista la concorrenza di gruppi affermati e di valore, nonché di album molto belli che erano usciti in quel periodo. Con “Pin Ups” Bowie celebrava apertamente la propria appartenenza al miglior rock inglese, affermando allo stesso tempo di non essere una meteora glam al pari di tanti gruppi che di lì a qualche anno, dopo qualche successo, si sarebbero eclissati in un totale anonimato. 



Al massimo del suo successo, Bowie affrontò con metodica volontà la successione al suo celebrato e ingombrante alter ego, Ziggy Stardust.

Nell’ aprile del 1974 esce “Diamond Dogs” il cui latrato iniziale sembra quasi un grido di morte.

Così inizia questo album, seguito da parole che descrivono paesaggi da incubo, fra horror e fantascienza. 



“Future Legend” non è proprio una favola.

E’ uno spartiacque.  

Affascinato dal film capolavoro “Metropolis” di Fritz Lang, Bowie ne riprende le atmosfere, le rielabora in chiave quasi horror, facendone lo sfondo naturale su cui si muoveranno le figure spettrali del suo nuovo album.

Non è più un sogno diurno nell’era della Luna ciò che David intona, bensì un incubo fatiscente dove la morte è la nera signora che domina su tutto e tutti, il cui diabolico messia non è un alieno marziano bensì un tetro mutante mezzo uomo e mezzo cane, Halloween Jack, sinistro aedo del tragico avvento del Grande Fratello. Ascoltatevi la splendida “We Are The Dead”. Il testo si basa sulla tecnica del “cut up” e si fonda su una frase di Winston Smith, personaggio del romanzo “1984” di George Orwell.



E’ noto che Bowie ricevette il rifiuto della vedova di George Orwell di scrivere una rock opera sul celeberrimo romanzo “1984”. Ciononostante nell’album esiste una traccia così intitolata, peraltro il brano che anticipa la svolta repentina verso la soul music che si consumerà a sorpresa l’anno seguente negli Stati Uniti.

Con Diamond Dogs Bowie viviseziona il lato oscuro del successo, la cui trama interiore è ben lontana e differente della “grandeur” effimera di un mondo ove nulla rimane, ed è destinato a durare per troppo poco tempo, come di lì a poco avrebbe dolorosamente fatto esperienza sulla propria pelle Marc Bolan. 

Rebel Rebel, singolo di successo tratto dall’album, ed unico punto di contatto con i lavori degli anni precedenti, chiude alla grande l’epopea glam, divenendone il testamento musicale e spunto fecondo per covers da parte di tanti gruppi. Big Brother è la gemma conclusiva di un album che va ascoltato dall’inizio alla fine come un’opera incredibilmente matura, il cui autore centra completamente la prova più difficile, riuscendo a produrre un album visionario ed apocalittico che arriverà in cima alla classifica britannica e si affermerà anche negli Stati Uniti, nuova terra promessa da conquistare, come il Tour mondiale dimostrerà ampiamente, improntato ad una nuova immagine di esibizione tecnologica teatrale in cui Bowie apparirà  in mezzo a grattacieli di alluminio collegati da un ponte semovente che durante i concerti si alzerà e si abbasserà. Sullo sfondo il profilo da incubo di Hunger City, lo scenario che Bowie userà per interpretare le sue canzoni mediante coreografie “personalizzate” ad hoc per ciascuna di esse. Diamond Dogs è il primo album di successo di Bowie in cui l’umanità viene descritta in maniera negativa e sulla via di una completa decadenza. Il balletto finale di “Chant Of The Ever Circling Skeletal Family” sembra l’incontrovertibile finale di una morte collettiva di una specie degradata a tragica pantomima di sé stessa. 

Il disco viene lanciato dalla Rca con un tour colossale negli Usa. 

L’America e i suoi paradisi artificiali. Il successo e il suo prezzo da pagare. L’assuefazione alla cocaina e l’impossibilità di venire a capo di una vita vissuta su troppi livelli.

Tutto questo porta David Bowie a vivere una crisi umana profondissima durante la metà degli anni settanta. L’abbandono di Londra e del suo antico entourage, la crisi di un matrimonio in fondo vissuto come una sorta di “incidente di percorso” con Angie Barnett, il miraggio di carriera cinematografica in parallelo alla sua attività musicale, provocano nell’artista inglese una sorta di corto circuito emotivo ed esistenziale. 

“Young Americans” racconta tutto questo. Un album che segna una svolta drastica rispetto al passato, dalla musica ai testi. Il rock viene relegato in soffitta a favore della black music. Il risultato è un eccellente album di musica soul, composto e cantato in maniera egregia da un inglese bianco che si traveste da americano nero. Chiunque ascolti Young Americans dopo essersi abituato agli album che lo avevano preceduto stenta a riconoscere in esso David Bowie, almeno “quel” David Bowie che aveva conosciuto ed apprezzato attraverso le sue ballate melodiche e decadenti e i suoi brani rock fulminanti e travolgenti.

Il cambiamento fu effettivamente incredibile, tanto da far storcere il naso a tanti critici di casa nostra che non esitarono a stroncare l’album senza troppe remore.

Eppure, a distanza di quarant’anni è lecito affermare che Young Americans è un eccellente album di black music, che anticipa i Bee Gees di Saturday Night Fever e lo scoppio della  disco in tutto il mondo.

Le atmosfere musicali dilatate e raffinate, gli arrangiamenti orchestrali tipicamente soul che permeano l’album, l’interpretazione vocale di David, tutto l’album, insomma, esprimeva una nuova dimensione musicale, una nuova estetica che nulla aveva a che fare col passato, edificando al contrario proprio su questa rottura un nuovo percorso musicale ed artistico. 

John Lennon partecipa all’album, firmando come co-autore Fame.

E’ il primo album in cui suona Carlos Alomar, chitarrista che sostituirà Mick Ronson come “alter ego” di David in veste di arrangiatore per tutta la seconda metà degli anni ’70.

Bowie partecipa a trasmissioni musicali americane, celebra il suo successo in un duetto con Cher destinato a rimanere immortalato in svariati bootlegs dell’epoca, si concede al suo nuovo pubblico rilasciando interviste a ruota libera, celeberrima quella rilasciata a Playboy.

Le riprese del film “The Man Who Fell To Earth” di Nicolas Roeg furono l’ingresso di Bowie nel mondo del cinema. La storia di Thomas Jerome Newton, alieno giunto sulla terra con lo scopo di salvare il proprio pianeta dall’estinzione, trovò in Bowie l’interprete ideale, sia per la passata interpretazione in chiave rock di Ziggy Stardust, sia per la stessa fisiognomica del cantante-attore, all’epoca segnato nel fisico e nel viso dagli abusi delle droghe. Da quell’esperienza cinematografica scocca la scintilla verso la rinascita artistica e umana. Il risultato si concretizza attraverso un album capolavoro: “Station To Station”. 

Le canzoni che ascoltiamo in questo album ci trasportano in un universo musicale incredibilmente bello, apollineo, talvolta epico, costruito su una struttura sonora che fonde melodia, ritmi soul, arrangiamenti rock e intuizioni all’avanguardia. Il tutto sovrastato dalla voce incredibile di Bowie, che in questo capolavoro espande al massimo le sue capacità canore, in una gamma di tonalità che esprimono sensazioni che vanno dall’ipnosi della title-track, all’angoscia esistenziale di Word On A Wing, passando attraverso la lezione dei grandi interpreti soul in Golden Years e Wild Is The Wind, senza peraltro rinnegare le origini rock che trovano nella ironica TVC15 e nella intensissima Stay terreno fertile per un nuovo approdo al genere.

In Station To Station convivono il rock, il soul e la sperimentazione elettronica che vedeva all’epoca nei tedeschi Kraftwerk la punta di diamante europea. Lo stesso gruppo teutonico renderà omaggio a David citandolo nel testo della propria “Trans Europe Express”.

E proprio in Europa farà tappa il treno di Station To Station. Esattamente a Berlino: David Bowie, rientrato dagli U.S.A. allo stremo delle proprie forze, con la salute resa precaria dall’abuso della cocaina, cerca rifugio nella capitale tedesca per vincere la battaglia più importante della sua giovane esistenza: uscire dal tunnel della droga. In questa impresa è spalleggiato dal cantante americano Iggy Pop, suo amico dai tempi di “Raw Power”, album prodotto da David per questi nel 1973. Nasce un sodalizio umano tra due uomini sull’orlo dell’abisso. 

Come spesso accade, la sofferenza e la disperazione sono il concime dell’arte, quella vera, che è destinata a rimanere scolpita nella memoria. Accadrà proprio questo.

Berlino diventa il luogo simbolo della vita artistica di David Bowie nella seconda metà degli anni settanta. Dopo gli anni londinesi, il periodo americano, il soggiorno nella ex capitale tedesca durante il periodo della guerra diviene la perfetta fonte di ispirazione.

Gli album che verranno incisi tra il 1977 ed il 1979 formeranno la celebrata “trilogia berlinese” del Duca Bianco, a cui si aggiungeranno i due album scritti e prodotti per Iggy Pop, “The Idiot” e “Lust For Life”.

La creatività di Bowie raggiungerà i livelli più alti, riuscendo a fondere il rock e il soul, trasfigurando il tutto attraverso la musica elettronica, arrivando ad alchimie musicali inusitate, in cui l’assenza dei testi determina il dispiegamento di sonorità che evocano stati d’animo immediati, disegnando visioni eteree su un pentagramma che si arricchisce di soluzioni vicinissime alla musica contemporanea di avanguardia. Canzoni sublimi come “Heroes”, “Sons Of The Silent Age”, “Sound And Vision”, “Always Crashing In The Same Car” colgono attimi di vita dilatandoli nel tempo e nello spazio, togliendo ogni riferimento all’ascoltatore, portandolo in un eterno presente. Brani strumentali come “Speed Of Life”, “A New Career In A New Town”, “V2 Schneider” sintetizzano un linguaggio musicale in cui il ritmo viene liberato da qualsiasi genere di riferimento, costituendo il traino per veri e propri quadretti musicali squisitamente futuristi. “Warszawa”, “Subterraneans” e “Art Decade” sono gioielli di una bellezza unica: piccole sinfonie contemporanee in cui i cori e le sonorità dei sintetizzatori si abbracciano indissolubilmente, fondendo passato e futuro in un solo presente che profuma di eternità.

“Sense Of Doubt” e “Moss Garden” sublimano con poche note stati d’animo complessi. “African Night Flight”, “Yassassin” e “Move On” aprono le frontiere dell’Europa a suggestioni che provengono da altri continenti. “DJ” e “Boys Keep Swinging” divertono l’ascoltatore, raccontando il presente con i mezzi del futuro. La splendida “Look Back In Anger” è un superbo brano di rock’n’roll ultraelettrico e dalla ritmica formidabile. Il video ci racconta David Bowie, in quel momento. Artista, angelo, demonio, o quant’altro. Dorian Gray rovesciato del XX° secolo, che osserva un quadro dove viene ritratto con le ali di un angelo, mentre un’orrenda cicatrice gli deturpa il volto. 

Trascorreranno gli anni ottanta, attraverso una sorta di amnesia creativa e di un lento adagiarsi nei panni della rockstar di mestiere. Bowie vivrà una nuova stagione creativa nel decennio successivo, dopo il matrimonio con la modella Iman.

1. Outside prese forma compiutamente il 12 marzo 1994, nel corso di una seduta di tre ore e mezza, in cui i personaggi dell’album presero vita, come fantasmi destinati a raccontare la tragedia dell’arte, in quegli anni che vedevano morire insieme un secolo ed un millennio. Era cambiato un intero mondo. Una lunga guerra definita “fredda” era terminata in Europa, proprio a Berlino, come quella che la aveva preceduta. Un muro costruito con i mattoni dell’odio e della menzogna era crollato, implodendo su se stesso. Soldati avevano gettato via i loro fucili, incuranti di ordini superiori, e avevano scalato loro stessi quella barriera che fino al giorno prima avevano presidiato, stufi anch’essi di recitare una squallida parte che il destino aveva loro assegnato.
Antiche certezze erano oramai diventate opinioni, sempre più discusse e sempre meno accettate. Nietzsche, Einstein e Freud avevano disegnato nuovi orizzonti a cavallo fra due secoli, e un’antichissima fede languiva in preda agli spasmi della fine, proprio mentre un uomo vestito di bianco viaggiava senza sosta da un angolo all’altro del pianeta per testimoniare con forza e disperazione un Dio che sempre meno persone amavano e seguivano. Non era più tempo di certezze e di dogmi. Non era più un età di progresso senza fine, ma l’alba di un nuovo mondo, che di lì a poco, avrebbe fatto capolino in maniera assolutamente sinistra, e, con un sorriso perverso ci avrebbe attirati tutti nelle spire di una trappola mortale: la globalizzazione.
E proprio su quelle macerie, su quelle rovine che iniziavano ad emergere, si erge una vittima sacrificale, Baby Grace, uccisa e dissezionata, a partire dalle ore 5.47 della mattina del 31 dicembre 1999, ultimo giorno di un secolo e di un millennio.
Il signor Jones ritorna a vestire i panni di David Bowie, regalandosi una pietra miliare della sua arte.
Chi sia questa bambina, in fondo ce lo aveva rivelato proprio lui, nel corso di tanti anni.
La sua anima di artista, violentata e straziata, infine sottoposta ad una accurata autopsia, ultimo estremo tentativo di dare vita ad un’opera d’arte. Una storia gotica, horror qualcuno potrebbe pensare. Ma è l’alter ego stesso dell’Artista che ci pone l’interrogativo: è arte? Nathan Adler è il suo nome, un investigatore di fine millennio, facente parte della divisione Crimini Artistici Ass., società di recente istituzione, fondata col contributo del Protettorato delle Arti di Londra. E quegli organi così crudamente esposti in bella mostra, che cosa sono in fondo? Appesi su una piccola tela tra i pilastri principali del luogo del delitto.
E’ Arte? E’ una sfida.

1.Outside è un album unico. Non solo per quanto concerne la discografia di David Bowie. E’ l’album di una confessione. Di un ricordo. Di un disperato bisogno di tornare ad essere se stesso. A questo album fece seguito una tournée formidabile insieme ai Nine Inch Nails di Trent Reznor, e di fatto, tutto questo, sancì in maniera inequivocabile la rinascita artistica di David Bowie. 

Termina un secolo ed un millennio. Nel 2002 David Bowie elabora la sua personale visione dei tempi che corrono, dopo l’11 settembre 2001. E lo fa attraverso un album “Heathen”, che prende spunto dal clima di confusione che serpeggia in tutto il mondo, scosso dai venti di guerra che spirano furiosi in Medio Oriente, per dare alla luce un album che parla dell’uomo contemporaneo. Campeggiano, all’interno di esso le immagini di tre libri: “La teoria generale della relatività” di Albert Einstein, “L’interpretazione dei sogni” di Sigmund Freud e “La gaia scienza” di Friedrich Nietzsche. Le colonne portanti di un mondo che ha rinnegato a poco a poco la dimensione del trascendente, e non a caso le visioni di immagini sacre deturpate e sfregiate completano la confezione del disco, facendo da supporto visivo all’atmosfera generale di un album cupo e malinconico, in cui l’artista appare in copertina nelle eleganti vesti di un uomo occidentale, con gli occhi privi di vita che cercano di scrutare qualcosa di cui non riesce più a comprendere il significato.

Il resto è storia recente: il ritiro dalle scene, dopo un tour mondiale terminato con un’operazione al cuore, e un lungo esilio durato dieci anni, terminato a sorpresa con la pubblicazione di un album “The Next Day”, nel 2013. Poi “Blackstar”, in cui la sua parabola artistica si mescola in maniera tragica alla sua vita personale, in un album memorabile, di cui si è già detto tutto, tranne ciò che non potevamo sapere: era il suo ultimo.

Non tocca a me stabilire ciò che rimarrà nella memoria e nella cultura contemporanea del lascito artistico di questo musicista. Posso soltanto affermare l’enorme vuoto e il senso di smarrimento di chi lo ha seguito da quarant’anni esatti come il sottoscritto, seguendone le evoluzioni e le tappe di una carriera, che, vista in prospettiva, appare in tutta la sua grandezza. Bowie riuscì ad incarnare alla perfezione l’insicurezza e l’imperfezione dei nostri tempi, raccontandoli in maniera assolutamente personale, filtrandoli mediante un’intelligenza viva e mai doma, raccontandoli attraverso personaggi che deformavano la realtà allo scopo di schernirla, renderla fruibile anche a chi la viveva talvolta con fatica. Bowie ebbe grandi estimatori e acerrimi detrattori. Fu oggetto di venerazioni quasi puerili e di inspiegabile e talvolta fastidiosa ostilità.

Per chi lo amato rimane un compagno di vita, che ha accompagnato per decenni giornate magari grigie, colorandole di un fascino nuovo. 

E rimane soprattutto la maledetta certezza, ogni volta che inseriremo nel lettore un suo cd, o appoggeremo la puntina del giradischi su uno dei suoi vinili, che non potremo più aspettare il suo prossimo album.

La sua parabola termina qui, 11 gennaio 2011. Oggi mi sento vecchio.