A volte mettono malinconia le rockstar degli anni settanta e ottanta, con i loro ritorni che profumano di antico e le loro nuove proposte discografiche che non regalano altro che sfuggenti scintille degli antichi fuochi sacri che resero immortali le loro imprese musicali giovanili. 

Quando parliamo di rock spesso veniamo presi dalla tentazione di aprire l’album dei ricordi, e di sfogliare pagine colme di fotografie in bianco e nero corredate da immagini coloratissime che riproducono copertine celeberrime che segnarono nel profondo la cultura e l’immaginario di un’epoca che oramai si perde lontana da noi. 



Tendiamo a mettere spesso in secondo piano gruppi e musicisti che si affacciano all’orizzonte con proposte che meriterebbero altra considerazione, siamo portati a considerare validi dei veri e propri “archetipi” artistici che sono impressi nel nostro io più profondo, condizionandoci nei nostri giudizi e nella scelta dei nostri ascolti.



In realtà il rock nasce come una frattura, una spinta libertaria di una generazione che si accorgeva di contare assai di più rispetto al ruolo che gli veniva assegnato dalla società in cui iniziava a muovere i primi passi. Il ’68 sarebbe esploso contemporaneamente alla sua diffusione, facendo inizialmente di esso la voce quasi “naturale” di tutti i movimenti studenteschi della fine degli anni sessanta.

Ma non l’avrebbe mai e poi mai addomesticato e reso succube dei suoi slogan e delle sue parole d’ordine, che via via si sarebbero ridotte ad uno sterile e monotono ritornello per giovani borghesi sognatori di una rivoluzione impossibile.



Il rock porta naturalmente in se stesso uno spirito che alimenta l’evoluzione continua del suo linguaggio musicale e artistico, mutandolo nel corso del tempo attraverso contaminazioni che traggono la loro origine dallo sviluppo tecnologico degli strumenti e delle tecniche di produzione e registrazione, e dall’approccio che i musicisti hanno con essi. 

L’ispirazione si nutre di tutto questo, e anche dell’ovvio e necessario corollario fornito dal talento del singolo artista, e dalla sua innata contrapposizione con l’ambiente dove è cresciuto, formandosi culturalmente e umanamente. 

Rock è sinonimo di ribellione, ma non in senso politico. 

Rock è ribellione interiore verso forme e situazioni che vengono avvertite come superate, oramai strette, vere e proprie camice di forza che soffocano il proprio io e lo portano ad affermare con urgenza la propria intima e necessaria ragione di esistere. 

Rock è urlo e provocazione, urgenza di affermazione e di distacco.

In tutto questo crogiolo è nato e si è evoluto tutto un genere musicale che ha invaso la musicale popolare della seconda metà del ventesimo secolo nel mondo occidentale e industrializzato. 

David Bowie ha attraversato tutto questo universo musicale ed esistenziale, dalle sue origini ad oggi. 

Il giovane ragazzo londinese, nato alle nove di mattina di mercoledì 8 gennaio del 1947 al numero 40 di Stanfield Road, aveva iniziato a suonare il sassofono sin da ragazzino, prima di lasciarsi coinvolgere nell’inebriante e contagiosa atmosfera dell’era beat che faceva dell’Inghilterra degli anni sessanta la fucina di un’irripetibile generazione di giovani musicisti di talento. 

La sua storia umana e artistica lo avrebbe portato a toccare i vertici del successo e gli abissi della disperazione, in una sorta di connubio incredibile e magico, quasi che le sue opere migliori fossero la sua catarsi interiore da situazioni disperate che avevano stroncato la giovinezza di altri musicisti rock suoi coetanei, in Inghilterra e negli Stati Uniti d’America. 

Un corredo di immagini che non ha pari nel museo dei ricordi del Rock, album che testimoniano una presenza costante attraverso i decenni, cadute e resurrezioni, tour mondiali in tutti i continenti, film e partecipazioni teatrali: se dovessimo studiare il fenomeno del rock, David Bowie potrebbe essere un eccellente soggetto su cui concentrare le nostre indagini. 

Il lungo esilio a cui si è sottoposto per dieci anni pare inserirsi perfettamente, a posteriori, in tutta la sua incredibile vicenda, quasi come un necessario tassello, una tessera importante di un grande puzzle che ancora non vede la sua fine. 

Un’assenza che via via pareva assumere i connotati di un silenzioso addio, senza proclami, che veniva inizialmente preso come il naturale finale di una carriera strepitosa che aveva finito per stemperarsi e sbriciolarsi attraverso opere discografiche discutibili o quantomeno non più intrise di “quella” magia che lo avevano reso celebre come il “camaleonte” del rock. 

Ma anche un’assenza che faceva rumore e dava adito ad ogni sorta di voce, in primis quelle che lo dipingevano come malato “quasi terminale” o comunque in una situazione di salute estremamente precaria. 

Un’assenza che, insomma, iniziava a fare notizia da sola.

Il suo ritorno discografico di tre anni fa giocò sull’effetto-sorpresa.

“The Next Day”, con la sua copertina incredibilmente mutilata nel viso e nel titolo, il riferimento diretto a “Heroes” e alla storia del periodo di Berlino, a quella rinascita umana dalla tragica assuefazione alla cocaina a cui aveva corrisposto una svolta musicale incredibile e rivoluzionaria. Un vero e proprio colpo d’ala che aveva fatto di David Bowie il carismatico leader di tutta una generazione di musicisti che si stava avvicinando alla ribalta nella seconda metà degli anni settanta. 

Una coincidenza?

Neppure per sogno: il segreto era tutto nel cogliere l’affinità più intima e nascosta, dietro la banale immediatezza. Bowie stava rinascendo. Era questo il messaggio.

“The Next Day”, titolo scritto con caratteri semplici su uno sfondo bianco, quasi un foglio virtuale di videoscrittura, rimandava a qualcosa di “altro”, che pareva farsi beffe del contenuto dell’album, così ricco di canzoni che parevano riferirsi una ad una al passato di David, rivisto e corretto attraverso una musica pop piacevolissima e ricca di momenti suggestivi e ricordi quasi strazianti nella loro bellissima rievocazione.

“The Next Day” era un appuntamento, un arrivederci al “giorno seguente”, una vera e propria promessa di qualcosa che stava prendendo una forma tangibile e concreta fin da allora, in quei primi mesi del 2013, in silenzio, al riparo da occhi indiscreti e inutili pettegolezzi.

Di cosa si trattasse lo si poteva intuire da alcuni indizi, attraverso due canzoni, uscite nel 2014 come singolo in vinile, uno dei quali inserito nell’antologia “Nothing Has Changed”, che non a caso inseriva per la prima volta anche i brani giovanili dell’artista, quelle canzoni scritte e cantate da adolescente, da quel ragazzino che amava maledettamente suonare il sassofono, prima del successo di Space Oddity.

In diversi non credevano alle proprie orecchie, ascoltando la lunga performance di “Sue (Or In A Season Of Crime), che faceva piazza pulita di tutto quello che “The Next day” aveva proposto a livello musicale, proponendo un lungo ed oscuro brano di musica jazz, inciso con l’orchestra di Maria Schneider. 

Affascinante ma inusitato, quasi quanto la svolta artistica della trilogia berlinese.

Quella copertina mutilata nel viso di “The Next Day” iniziava a svelare il proprio arcano.

Un arcano che avrebbe preso le sembianze di uno dei più famosi simboli dell’esoterismo e dell’inconscio dell’essere umano: la stella a cinque punte.

Una stella nera, impressa sulla nuova copertina dell’album annunciato dai principali quotidiani britannici, e confermato poco dopo dall’ufficio stampa dell’artista.

“Blackstar”, il primo brano ad essere messo in rete è una lunga litania, a metà strada fra il sacro ed il blasfemo, suggestiva ed intrisa di una magia che lascia stupefatti.

Come il video che la presenta. 

Musicalmente elaborata attraverso una linea melodica tesa e un arrangiamento essenziale nella parte ritmica che la supporta, dove gli strumenti a fiato sono in primissimo piano, la canzone si evolve come un mantra spettrale, fino ad esplodere in un momento di rara bellezza, a metà circa, dove si innesca una melodia splendida, quasi come se due canzoni differenti si fossero fuse in una sola, diventando entrambe qualcosa di diverso.

Non manca di entusiasmare anche il secondo singolo proposto. 

“Lazarus”, come il titolo di un musical allestito e presentato a New York dallo stesso Bowie, dove il personaggio, guarda caso, è ancora un alieno. 

Un caso? Probabilmente no.

E’ una canzone bellissima, dove il sassofono, strumento principale di tutto l’album, recita una parte da assoluto protagonista, facendo da partner perfetto alla voce di Bowie, splendida e ispirata come nei suoi momenti migliori, a tratti addirittura toccante, alla fine della canzone. Un brano intenso, lirico, onirico, magistrale, che regala attimi di aspra ed emozionante tensione. L’atmosfera iniziale, con il basso e la batteria a dettare un ritmo quasi blues, si apre con l’ingresso degli altri strumenti, che paiono quasi rispondere come un coro all’unisono ai versi cantati da Bowie. Raffiche di disperazione che sottolineano la storia, la scarna vicenda un uomo che non ha più nulla da perdere. Il disperato bisogno di libertà del personaggio raccontato trova nelle note straziate e strazianti del sassofono il suo perfetto compendio sonoro.

“Sue (Or In A Season Of Crime)” è un turbine vorticoso di suoni che ti avvolgono dopo pochi secondi. Un robusto ritmo di basso e batteria che si arricchisce di tutti gli strumenti, il sassofono che si lancia in assoli, la voce di Bowie impostata da crooner contemporaneo. Atmosfere degne di un romanzo noir, ideale colonna sonora di un inseguimento a perdifiato, la canzone si evolve minuto dopo minuto, accompagnata da suoni che appaiono quasi riprendere in chiave contemporanea certi brani dei Neu o dei Cluster. Un finale arrembante chiude il brano che termina con un sibilo sinistro.

“Tis A Pity She Was A Whore” è una giungla di sonorità che si accavallano sopra il ritmo duro di una batteria martellante. Il sassofono sempre in primo piano, assoli che si librano in sonorità quasi free che sembrano cercare di terminare quelli rimasti incompiuti da John Coltrane. Una tastiera che pare andare volutamente fuori tempo. La voce in falsetto di Bowie sembra essere semplicemente uno strumento fra i tanti. L’ordine si scompone e si ricompone. Assonanze e dissonanze che si alternano fino al termine del brano, con uno stacco finale.

Sia “Sue (Or In A season Of Crime)” che “Tis A Pity She was A Whore” sono completamente differenti dai brani presentati come singolo. Il confronto gioca a favore di queste nuove versioni, sicuramente. 

Due brani che miscelano funk, soul, sonorità jazz, ma in contesto che riporta comunque a qualcosa che al rock deve tanto. Non deve sorprendere. I musicisti sono eccezionali. Sono due canzoni dove i ritmi si fondono con tutto l’apparato degli strumenti solisti. Il sassofono è sempre e comunque dominante. Il drumming è perfetto, incisivo e duro 

“Girl Loves Me” ci porta verso una dimensione completamente differente. Un ritmo monocorde dove la voce di Bowie gioca dall’inizio alla fine con raffinata ironia e ostentata spregiudicatezza. Le tastiere e gli archi intervengono ciclicamente dipingendo la scarna atmosfera del brano con interventi dosati ma suggestivi. Una canzone che si regge tutta sull’equilibrio dosato fra gli strumenti. Intermezzi sonori che interrompono la trama della canzone, che poi riprende ad avvolgere la voce narrante di Bowie. Qualcosa di veramente inedito e incredibile.

“Dollar Days” è una canzone dall’andamento quasi “mainstream”. Aperture degne della migliore tradizione della musica leggera americana. Bowie sfoggia una voce magistrale. Il sassofono si libra in cielo arricchendo con i suoi potentissimi assoli tutto il brano. Una canzone che potrebbe diventare un classico del repertorio di qualsiasi “soul singer” americana. Un finale in crescendo dove voce e tastiere si fondono .

“I Can’t Give Everything Away” termina l’album. Un’ armonica che sembra quella di “A New Career In A New Town” introduce una cavalcata finale, dove basso, batteria e tastiere si completano a vicenda, il sassofono stempera i suoi assoli e Bowie recita più che cantare. Il titolo della canzone viene ripetuto in continuazione, quasi come fosse un invito, una giustificazione o chissà cosa altro. Si sente l’unico vero assolo di chitarra in tutto l’album. 

Alla fine dell’ascolto si può tranquillamente affermare che non esiste un solo istante di noia in tutto l’album. 

Si tratta di un prodotto in cui la compattezza della band e l’incredibile tecnica dei musicisti contribuiscono in maniera determinante a sorreggere e ad arricchire l’ispirazione originale della composizione dei brani. I musicisti che hanno partecipato alle session di registrazione sono Donny Mc Caslin al sassofono e flauto, Tim Lefebvre al basso, Ben Monder alla chitarra, Jason Lindner al piano e alle tastiere e Mark Guiliana alla batteria. La produzione è di Tony Visconti, ancora una volta.

Il livello dell’album è altissimo e di assoluta eccellenza.

Siamo lontanissimi dal rock, come lo intendiamo comunemente. 

Ma non siamo neppure in ambito jazz. 

La sensazione è che si sia aperta una nuova vita artistica per David Bowie. 

Una nuova ispirazione che gli permette di addentrarsi in territori sonori nuovi e mai percorsi prima, con una feroce e spietata determinazione, potente e incredibilmente efficace.

La copertina dell’album, anche questa volta, non riporterà il suo volto, ma sarà dominata dalla nuova icona bowiana, questa misteriosa, e a tratti occulta, stella nera.

Non è un caso neppure questo.

Alle porte dei settant’anni, David Bowie non ha più bisogno di un’immagine da proporre per promuovere se stesso. 

Questo album parla della sua rinascita artistica autentica, “senza se e senza ma”.

Un album assolutamente superiore alla media di ciò che esce oggi, che fa di Bowie non più un “maestro venerato”, bensì un artista pienamente inserito nel suo tempo, capace di intraprendere nuovi direzioni per proprio conto, senza interessarsi troppo di ciò che nel frattempo gli accade intorno, certo che, probabilmente, saranno gli altri a cercare di seguirne le tracce. Sempre che ci riescano, ovviamente.

Ancora una volta Bowie diventa un segnale, un indicatore di direzione.

“Blackstar” chiude un cerchio. 

Vent’anni fa l’artista inglese aveva prodotto un album capolavoro chiamato “1.Outside”, in cui la sua anima di artista si era bruscamente risvegliata da un lungo letargo. Quel disco rimase per anni una sorta di isolato “testamento artistico” della sua incredibile creatività, facendo risorgere i fantasmi della trilogia berlinese attraverso una nuova collaborazione con Brian Eno.

Oggi Bowie va oltre. Ascoltando ancora la sua anima più intima.

Ricorda la sua adolescenza, la sua passione per le sonorità che avevano fatto nascere in lui la passione per la musica, attraverso uno strumento, il sassofono. 

L’uomo e l’artista si abbracciano come due fratelli che si ritrovano dopo mezzo secolo. 

Il giovane David Robert Jones, il ragazzino che amava maledettamente il sassofono, è il vero protagonista di questo album splendido e pieno di vitalità. 

La gioia di sfidare l’impossibile e di sentirsi ancora quel ragazzino di Londra. 

Il desiderio di sfondare a calci con gioia rabbiosa la porta verso una nuova giovinezza artistica: questo è “Blackstar”, al di là di ogni considerazione e di ogni analisi tecnica che si possa dare di esso. Lo spirito, la rabbia e la gioia di un adolescente entusiasta nel corpo di un uomo di 69 anni.

Non è il Duca Bianco che canta in questo album, tantomeno Nathan Adler. 

David Robert Jones, alla fine, interpreta solo e semplicemente se stesso.

In tanti lo cercavano: ma come il capitano Nemo in “Ventimila leghe sotto i mari” Bowie navigava secondo le sue rotte, lontano da ogni sguardo, quasi volendo far perdere ogni traccia. 

Oggi è riemerso.

E quello che mostra è solo una parte dei tesori che ha raccolto nei fondali più inaccessibili dell’Oceano della sua Immaginazione, attraverso dieci lunghi anni.

Un’ultima considerazione mi porta a un paragone molto ardito con un altro gigante della musica popolare contemporanea.

Parlo di Robert Zimmerman, in arte Bob Dylan, sempre “on the road”.

Ascoltando negli anni, ripetutamente, l’album “Space Oddity” del 1969, ho sempre avuto l’impressione di una netta e marcata influenza dylaniana in Bowie, resa esplicita in seguito nella bella ballata “A Song For Bob Dylan” incisa nell’album “Hunky Dory” del 1971.

Lo scorso anno Dylan produsse l’album “Shadows In The Night” incidendo canzoni interpretate addirittura da Frank Sinatra. 

Anche in quel caso assistemmo alla chiusura di un cerchio: Dylan arrangiava ex novo in quell’album, in maniera semplicemente superba, dei brani che nessuno probabilmente avrebbe mai creduto di sentirgli cantare. Quelle canzoni vennero rielaborate, a tratti “scarnificate”, sintetizzate alla perfezione attraverso musicisti di primissimo livello e interpretate dal genio di Duluth in maniera a tratti commovente. Dylan si inseriva in maniera definitiva (se per caso ce ne fosse stato il bisogno) nella più pura tradizione della musica popolare americana. Con Sinatra, Elvis Presley e Bob Dylan si aveva il quadro completo di una tradizione musicale nazionale, che aveva fatto scuola nel mondo intero.

In Blackstar Bowie ha fatto un percorso simile: ha radunato musicisti tipicamente jazz, e ha costruito pezzo per pezzo un album che deve molto alla tradizione ma nello stesso tempo se ne allontana anni luce per spalancare le porte al futuro. 

A differenza di Dylan, che traccia i confini di un genere e si elegge legittimamente come ultimo vero e autentico garante di una intera tradizione, Bowie allarga quei confini e li spinge verso un punto che ancora è lontano nello spazio e nel tempo. 

Non è un caso, che volendo probabilmente scrivere la propria “Blowin’ In The Wind”, Bowie, nel 1968, abbia finito invece per comporre “Space Oddity”, seguendo quella che era la sua più intima e naturale vocazione.

Microcosmo e macrocosmo, del resto, si completano e si compenetrano, nella realtà come nell’arte. “Come in alto così in basso”. Bowie e Dylan sono due artisti assoluti. Forse i più grandi. Chissà, un giorno i loro sguardi, così differenti, si incroceranno.