1992, terza media, a casa di Matteo per mezz’ora di compiti prima di scappare a giocare a tennis di nascosto dai “guardiani” del campo. Mezz’ora di compiti in cui – non sai mai che ci si concentrasse troppo – facevano sfondo i cd che l’illuminato genitore di Matteo gli regalava, al ritmo di due al mese. 



Una manna musicale che in quell’anno di grazia vide arrivare Blood Sugar Sex Magik, suonato da una strampalata band che si chiamava come una spezia piccante e aveva un bassista uso a salire sul palco vestito da preservativo. 

1992, e allora che ci facciamo oggi – anno Domini 2016 – al PalaAlpitour di Torino, noi e quella stessa band gli uni di fronte agli altri? Io bene, bene, non lo so. Loro, i Red Hot Chili Peppers, lo chiariscono già con il primo pezzo: Can’t Stop, amico, non è nostalgia, non è reunion di zombie come quella dei tuoi cari Guns, è diverso, noi non ci siamo mai fermati, non possiamo.



Peccato che un po’ fermo, anzi tanto, lo sia il pubblico, che in un palazzetto da 12 mila posti quasi pieno conta non più di 12 o 13 persone – tra quelle in platea – decise a ricordarsi che questo è un concerto rock e perciò pronte a danzare, muoversi, scontrarsi… 

Sarà per questo, anche, per una risposta del pubblico cordiale ma non proprio esplosiva, che dopo un’ora e trentatré minuti, dopo novantatré (93!) miseri minuti bis inclusi i nostri eroi lanciano il loro ultimo e insindacabile “ciao Torino” e rientrano per sempre nei camerini?

Perché suonare, suonano, i vecchi ragazzi, e saltare, saltano quanto basta: quanto basta per renderli simpatici tanto al presente quanto al ricordo di loro. E allora pensi che vabbé, un’ora e mezza lascia un po’ di amaro in bocca (e poi non si può non fare Under the Bridge), ma forse non è altro che realistica presa d’atto: di sé e della maggior parte dei convenuti, che hanno un’età, che ormai tengono famiglia e che insomma domani il bimbo all’asilo, la riunione in ufficio, eccetera. 



Tutto poco rock, forse, ma interessante. Perché li guardi e dici fra te che paiono i soliti scemi (del resto, che vuoi aspettarti da uno che si veste da profilattico, che diventi un filosofo?) ma che questo è parte del loro fascino.

I Guns, i tuoi Guns, sono la caricatura di se stessi e non contenti di esserlo non hanno resistito al fascino perverso della reunion ventennale: erano un mito e come è nella natura dei miti sono crollati, corrotti, superati. Questi quattro sul palco, invece, paiono quello che sono sempre stati, anche se non capivi bene la differenza. Sembrano, cioè, persone: star, ma persone. In un certo senso amici. E degli amici non si corrompono: invecchiano casomai, ma invecchi anche tu e perciò “chi sono io per giudicare?” 

Perché tra amici questo – che non ci è concesso con i miti – si può fare: guardarsi crescere, invecchiare, peggiorare e perdonarsi a vicenda per questa imperfetta carne che ci portiamo addosso.

E fare ogni tanto quel che sta accadendo in questa ennesima tournée: passare una bella serata insieme, divertendoci assieme come si faceva anche da giovani, ma senza nostalgie e con un occhio all’orologio. Ché è bello rivedersi, ma domani i ragazzi vanno a scuola e io ho una riunione alle 8.

E anche gli amici migliori, a dirla tutta, dopo un’ora e mezza ci hanno bello che stancati…