E’ un afoso giorno di giugno del 1970. Nell’aria solo il frinio delle cicale, fastidioso e inquietante come solo è il verso delle cicale. Una lussuosa limousine arranca verso la prestigiosa università di Princeton, dove per la prima volta verrà concessa una laurea in musica, honoris causa, a un cantautore rock. Dentro, oltre all’autista, ci sono due delle più famose rock star al mondo e la moglie di uno di loro. Uno dei due si appresta a ricevere la laurea. Non sembra molto entusiasta. Anzi. Tornerà a casa infastidito a tal punto da scrivere subito una velenosa canzone su quella giornata: “As I stepped to the stage to pick up my degree the locusts sang off in the distance… I glanced into the chamber where the judges were talking darkness was everywhere, it smelled like a tomb… I was ready to leave, I was already walkin’ I put down my robe, picked up my diploma… Took hold of my sweetheart and away we did drive Straight for the hills, the black hills of Dakota… sure was glad to get out of there alive…“. Felice di essere uscito vivo da lì, da Princeton.



Bob Dylan è il primo cantautore rock il cui lavoro viene riconosciuto da una università americana. Quello del 9 giugno 1970 è un momento storico, Ad accompagnarlo l’amico David Crosby che letteralmente lo spinge sul palco al momento della consegna. E’ l’incontro/scontro tra due mondi, quello accademico della cultura ufficiale e quello dell’allora controcultura, di cui Bob Dylan è considerato dai giovani di tutta America la voce più forte e influente. Anche gli accademici se ne rendono conto tanto che nel discorsetto di premiazione dicono: “Anche se tutti sanno che non gradisce la notorietà e le situazioni pubbliche e sebbene si stia avvicinando alla pericolosa età dei 30 anni, Bob Dylan rimane l’autentica espressione della turbata e impegnata coscienza della giovane America”. In effetti il cantautore ha 29 anni e a quei tempi era d’uso dire: “Non fidarti di chi ha più di 30 anni”. A 30 anni si era vecchi e si apparteneva all’establishment.



Contro accademici, professori e ceto medio borghese Dylan aveva scritto canzoni taglienti e piene di disprezzo: “You’ve been with the professors and they’ve all liked your looks… with great lawyers you have discussed lepers and crooks You’ve been through all of F. Scott Fitzgerald’s books… you’re very well-read, it’s well-known” (Ballad of a Thin Man).Erano due mondi in collisione.

Nei decenni successivi il palmares del cantautore si sarebbe riempito oltremisura di premi e onorificenze, da quello Oscar per la miglior canzone da film, nel 2001, a un’altra laurea honoris causa nel 2004 concessa questa volta dalla più antica e celebre università scozzese, la St Andrews (nelle foto dell’evento lo si vede letteralmente addormentato in mezzo a professori e accademici), al Premio Kennedy, la più importante onorificenza americana all’arte e alla cultura, e poi anhce la Medaglia per la Libertà dalle mani di Barack Obama, dalla Legione d’onore francese (“drogato e pacifista non può meritarla” protestò un generale) al Neustadt International Prize for Literature, a un Pulitzer alla carriera. E ancora: il National Book Critics Circle Awards per la sua autobiografia, (Chronicles; insieme a Tarantola, l’unico libro mai scritto dal cantautore) e ancora il Premio Principe di Asturias con la motivazione che “la canzone e la poesia della sua opera crea scuola e determina l’educazione sentimentale di milioni di persone”.



Adesso, dopo quasi vent’anni di candidature, ha fatto bingo, ottenendo il premio più importante di tutti, il Nobel alla letteratura. La canzone rock è ufficialmente sdoganata? Bob Dylan entra a far parte della “cultura alta” quella contro la quale si era scagliato in tante canzoni e a Princeton? Adesso la canzone rock è letteratura riconosciuta pure dagli accademici “che contano”? Dicono che al momento della sua nomination, a Stoccolma, si sia levato un boato di disapprovazione. Si sono letti commenti  come quello dello scrittore Irvine Welsh: “Sono un fan di Dylan, ma questo è un premio nostalgia mal concepito strappato dalla prostata rancida di vecchi hippies balbettanti”; Alessandro Baricco: “Allora anche gli architetti possono essere considerati poeti”. Come cantava lo stesso Dylan, “qualcosa sta succedendo qui, ma non sai che cosa, Mister Jones”. Il mondo della letteratura è pieno di Mister Jones.

“Una canzone è qualcosa che può camminare da sola io scrivo canzoni una poesia è un uomo nudo qualcuno dice che io sono un poeta”, aveva scritto Bob Dylan una cinquantina di anni fa. Che valore abbia realmente oggi un premio Nobel, visti gli usi e gli abusi che se ne fanno, ad esempio con quello per la pace, non si sa veramente. 

E’ curioso che questo premio sia stato a conferito a Dylan lo stesso giorno che moriva Dario Fo, un altro Nobel alla letteratura che tecnicamente con la letteratura classica non centrava niente e che in tanti hanno irriso. Qualcuno potrebbe dire anche che Dylan e Fo sono stati una sorta di concessione “politica” a certo mondo alternativo, tanto per apparire “politicamente corretti” e far vedere che loro, gli accademici, sono persone aperte (ma avrebbe avuto senso 40 anni fa, quando la musica rock era realmente contro cultura). O dire che il premio Nobel a Hemingway o a Quasimodo aveva ben altro valore e contenuto.

Si può anche dire che la canzone rock non è poesia. Lo ha sempre sottolineato uno come Francesco De Gregori, da sempre definito “il poeta” della canzone italiana: “Scrivere canzoni è diverso dalla letteratura. Se esistesse un Nobel per la musica, Dylan lo meriterebbe senza “se” e senza “ma”. Dargli quello per la letteratura sarebbe come dare un premio per la falegnameria a un idraulico”.

C’è però qualcosa che va al di là di queste prese di posizione, entrambe. La canzone rock, nelle sue più alte manifestazioni, ha rappresentato qualcosa di unico e innovativo che ha scombinato la concezione di poesia e letteratura, ha aperto un universo fino ad allora sconosciuto, ma difficilmente si è voluto prenderne atto (anche se in America oggi prestigiose università dedicano cattedre alla canzone rock). Non più solo parola su carta (anche se tante canzoni di Dylan, a differenza della stragrande maggioranza dei suoi colleghi, si reggono benissimo anche su sola carta) ma unione espressiva di parola e suono. Composizioni soniche, che nell’unione di due elementi danno vita a una forma espressiva che non si può scindere, tanto una dipende dall’altra. E getta all’aria le coordinate su cui si è adagato il mondo della letteratura da secoli, pauroso di fare concessioni che lo potessero minare.

In un certo senso un ritorno alle origini, se è vero come è vero che sin dai tempi di Omero o dell’Antico Testamento la grande letteratura veniva cantata dalla voce umana, non scritta. Poi qualcuno metteva su carta o su papiro quello che ascoltava. Si dice addirittura che Shakespeare non abbia mai scritto nulla di suo pugno, ma che le sue opere siano state messe per iscritto da chi ascoltava.

In questo senso Dylan chiuderebbe un cerchio iniziato millenni di anni fa, risultandone l’erede più degno. L’errore più grande però che si potrebbe fare adesso sarebbe quello di dividere i testi di Dylan dalla sua musica. Se ne ucciderebbe il senso più vero.

Ma c’è un altro element ancora. La canzone rock, almeno fino a qualche anno fa, ha espresso più di qualunque altro scrittore o poeta degli ultimi decenni il cuore dell’uomo, le sue esigenze di libertà, felicità, compimento, così come il suo urlo di sofferenza. Non si tratta di fare una classifica tra chi è più bravo, ma tra chi meglio ha corrisposto alle esigenze del cuore di un mondo che stava cambiando.

La potenza espressiva di un brano come It’s Alright Ma (I’m Only Bleeding) nella sua capacità di raccontare tutto il disagio, il male, la sofferenza, il desiderio di escapismo di chi sente che il mondo moderno con il suo consumismo esasperato e la morte di Dio lo stanno strangolando non ha probabilmente paragoni nella letteratura del 900. Così come mai negli ultimi 50 anni ci si è sentiti interrogati e messi con le spalle al muro da parole quali “Come ci si sente, a essere senza casa, senza direzione, un completo sconosciuto, come una pietra che rotola?”.

Ecco perché il Nobel a Bob Dylan, per quelle generazioni cresciute con questa musica, ha oggi una valenza fortissima, probabilmente più che per lui. Per anni siamo stati derisi, denigrati, messi in un angolo, considerati degli ignoranti perché invece di studiare a memoria Il sabato del villaggio sapevamo tutta Like a Rolling Stone e Mr. Tambourine Man. Siamo stati dei reietti, dei perdenti all’occhio di “chi conta”, dei genitori e dei professori. Oggi abbiamo una rivincita niente male. Il che non vuol dire che nelle scuole non bisogni più studiare la Divina Commedia, ma che “qualcosa sta succedendo, anche se non sai cosa, Mister Jones”. E’ ora di affrontare in modo serio ed educativo il grande mistero delle canzoni rock. “The times they are a-changin’” e chi non lo capisce sarà condannato a rimanere per sempre un Mister Jones. 

La motivazione ufficiale con la quale è stato assegnato il Nobel a Dylan dice: “Essere stato in grado di aver creato una espressione poetica nuova all’interno della grande tradizione americana”. Niente di più giusto. A parte le influenze degli scrittori della Beat Generation, Ginsberg in particolare, del quale riprese ad esempio la struttura e l’immaginifico della sua Howl per A Hard Rain’s A-Gonna Fall, e i poeti maledetti francesi come Baudelaire e Verlaine dei quali riprese la ricerca introspettiva sofferente e drogata, Dylan ha sempre attinto dalla tradizione popolare del suo Paese. 

Ha ripreso il linguaggio delle ballate popolari delle comunità più umili, quelle che hanno reso grandi con la fatica l’America, la spiritualità del gospel, l’amarezza del blues, la difficoltà delle famiglie che è descritta nella musica country, ha scavato a fondo in quel pozzo senza fine che è la Bibbia. Ha intonato un grande “yap” di Whitmaniana memoria, confondendosi con i giocatori d’azzardo di Mark Twain, ha sondato in ogni angolo il suo paese percorrendo le stesse strade di Jack Kerouac e ha espreso lo stesso furore di Steinbeck.

E’ stato ed è ancora oggi la voce dell’America, quella che ancora credeva nella promessa di questo Paese e oggi ne canta la perdita con amaro realismo: “Ho sempre navigato in quel gran mare che è l’America” disse qualche anno fa. Quello che ha scritto in questi sei decenni è il grande romanzo americano.

Siamo certi che anche questa volta, quando si recherà a Stoccolma a ritirare il premio, conserverà la sua usuale aria annoiata e distaccata. I suoi premi sono probabilmente a prendere polvere su qualche scaffale di una delle sue case. La grandezza di Dylan è che invece di fermarsi sugli allori ha ringraziato, salutato e ha ripreso la strada, ancora oggi a 75 anni, cantando ogni volta in modo nuovo e diverso. 

La poesia delle sue canzoni non è ferma su carta, cambia e viene improvvisata ogni sera a seconda dell’umore, nasce e rinasce come quella degli antichi trovatori che giravano di comunità in comunità a raccontare la storia di ognuno. Fra i tanti versi straordinari che ha composto forse questo rimane a epitaffio, nella sua disarmante semplicità: “Se fossi un poeta con una bella mano, scriverei al mio amore una lettera che lei capirebbe”.

Alla fine di questa storia viene in mente l’immagine esultante di Allen Ginsberg quando sente Mr. Tambourine Man uscire da un jukebox: “La poesia è entrata nei jukebox!” esclamò. La poesia era tornata per le strade, tra la gente. Non è durata molto, visto l’abbruttimento che anima la musica popolare di oggi. Ma noi che abbiamo vissuto quei momenti, abbiamo esultato anche noi, pianto e sognato forte, molto forte, e ci siamo riconosciuti in quei versi sputati da una voce che ci sembrava giungere da un altro mondo. E oggi sentiamo tutti un po’ nostro questo premio Nobel. 

Shakespeare’s in the alley”, Shakespeare è nel cortile di casa.