Il mondo della musica, e in particolare quello del rock che tanto ci piace, ha perso ormai ogni punto di riferimento, lo diciamo noi ma anche perché lo sentiamo dire da parecchio tempo. 

I generi non esistono più, così come non esiste più una band che abbia la forza comunicativa ed artistica per portare avanti un discorso originale, per contribuire a plasmare un’epoca. 



Non a caso, la rete in questi giorni è zeppa delle immagini del festival di Desert Trip (malignamente soprannominato “Old ‘Chella, visto che si è svolto nello stesso luogo di quella celeberrima kermesse), dove gli organizzatori hanno riunito per l’occasione, in un unico cartello, Rolling Stones, The Who, Bob Dylan, Neil Young, Roger Waters e Paul Mc Cartney. Vale a dire i più grandi artisti rock degli anni ’60 e ’70. Ma anche di oggi, dobbiamo constatare malinconicamente. 



Età media 72 anni, hanno scritto i giornali in questi giorni, questi arzilli vecchietti sono ancora la massima attrazione per chi si vuole divertire con un certo tipo di musica. 

“Potrebbe essere l’ultima volta” si dice ad ogni giro. E questo, unitamente ad altri calcoli interessati, alimenta il caro biglietti ed il fenomeno del Secondary Ticketing che ha nuovamente tenuto banco in questi giorni dopo l’annuncio della doppia data dei Coldplay a San Siro. 

Insomma, ci sono sempre e solo loro. Lo diciamo da tempo e forse non è più il caso di ripeterlo. Probabilmente, in un periodo storico in cui la musica è sempre più digitalizzata e di conseguenza sempre più frammentata, smaterializzata, nel momento in cui l’offerta è quadrupla rispetto al passato e adoperare un filtro qualitativo è sempre più difficile, le vecchie certezze appaiono sempre più solide a coloro che hanno ancora voglia (e mezzi) di poter mettere mano al portafogli. 



Ma nel frattempo, in questo nostro universo musicale contemporaneo, accadono un sacco di cose. Per esempio, escono un sacco di dischi. Molti, forse anche troppi, sono bellissimi. Ma ecco, forse il problema è che non ci si riesce a raccapezzare poi molto. Cosa sta accadendo? C’è qualche nuova band che tira le fila? C’è un genere, un trend che va per la maggiore e che funge in qualche modo da punto di riferimento per gli altri? Non sembra proprio. 

C’è piuttosto un caos, una dispersione che rischia seriamente di scoraggiare i neofiti. 

Un tempo c’erano le riviste specializzate e leggere queste era già un facile modo per orientarsi. Oggi ci sono ancora ma, un po’ per il fatto che sono in crisi, un po’ perché la materia è diventata vasta a livelli impensati, qualcosa è cambiato anche qui: o si sono specializzate in qualche nicchia specifica, o hanno ceduto clamorosamente alle multinazionali, oppure (come nel caso di Rumore) provano più o meno a coprire tutto con l’unico criterio del valore e dell’importanza, ma rischiano spesso di perdere troppi pezzi per strada. 

E dunque non è facile capire cosa sta succedendo, forse non è proprio più possibile, o lo sarà solo tra molti anni, nell’acquisizione di una inevitabile prospettiva storica. 

Non rimane dunque che farsi colpire da ciò che succede e in questi giorni è successo che ho ascoltato tre dischi a modo loro molto interessanti. 

Il primo è il nuovo album dei Merchandise, “A Corpse Wired for Sound”. La band della Florida è in giro da diversi anni ed aveva realizzato già quattro lavori, tra ep e dischi veri e propri, prima di firmare con la storica 4AD. Un segno che di questi tempi, tra autoproduzioni e mercato globale, dove due brani registrati con pro tools in Nuova Zelanda possono essere recensiti da un sito italiano (più o meno è già accaduto in effetti), si può arrivare al sesto disco senza essere minimamente conosciuti. A casa loro forse lo sono un po’ di più, visto che di recente hanno partecipato ad una trasmissione televisiva mattutina, suonando il loro nuovo singolo di fronte a due bionde e divertite conduttrici e agghindati in maniera improbabile. 

E che cosa suonano, questi Merchandise che due anni fa passarono anche dalle nostre parti e si esibirono davanti a trenta paganti? Hanno un sound che si è evoluto molto nel corso del tempo ma la matrice è sempre la stessa: il passato. Nello specifico, quello Post Punk e Dark Wave degli anni ’80, declinato in maniera molto più luminosa e aperta nel precedente “After The End” e in quest’ultimo colorato di scuro e senza molto spazio per ritornelli liberatori. 

Ma nel frattempo c’è uno stile chitarristico (il bravissimo Dave Vassalotti) che ricorda molto gli Smiths e una fantasia compositiva e una capacità di rileggere le fonti che li fa spaziare in lungo e in largo, nell’arco di nove brani per quaranta minuti scarsi, per tutto lo scibile musicale di quel decennio inarrivabile. Ma tutto riletto secondo il gusto del loro tempo (che è poi anche il nostro) così che ci senti i Depeche Mode (quelli più scuri di “Black Celebration”), i Cure, i Joy Division, il rock depressivo ma dannatamente easy dei primi Editors, gli Smiths appunto, ma tutti perfettamente miscelati, con una voce, quella del leader Carson Cox, che tiene insieme tutto e garantisce un’esperienza di ascolto affascinante, retrò ma allo stesso tempo neppure così tanto. 

Poi è successo anche che è uscito il nuovo di Bon Iver. Già, quel Justin Vernon genio poliedrico, autore di mille progetti paralleli, che ha però fatto impazzire le ragazzine (ma non solo) con due dischi che, piacciano o meno, hanno forse contributo a creare l’unico trend riconoscibile di questo secondo decennio del nuovo millennio: il “New Folk Revival” (che nome orrendo, vero?). 

Adesso, dopo aver duettato con James Blake e probabilmente stanco sia delle camicie a quadri che del garage rock degli Shouting Matches (il più recente dei suoi innumerevoli progetti), ha realizzato un disco che sarà destinato a far discutere a lungo pubblico e critica. 

La metà dice che è un capolavoro, l’altra che è una schifezza atomica. In ogni caso, l’uso quasi ossessivo del vocoder, un approccio mai lineare, a favore di brani che a tratti sembrano una lunga successione di loop, strumenti tradizionali come chitarra acustica, pianoforte e sassofono, perennemente sepolti sotto una dose massiccia di elettronica minimale, fanno di “22 A Million” (un titolo incomprensibile come tutti quelli delle dieci canzoni che lo compongono, tanto che ho il sospetto che i fan le indicheranno con “la numero 1”, “la numero 2” e via andare), un album quanto meno spiazzante. 

Ma forse solo perché il monicker Bon Iver era normalmente associato ad altre sonorità. Chi fosse famigliare con le ultime produzioni di Kanye West, James Blake o altri artisti che vanno oggi per la maggiore, si sarà accorto che certe soluzioni sono all’ordine del giorno. 

Che poi le canzoni ci sono e sono pure belle, Vernon è sempre stato uno che sa scrivere e non ha certo smesso ora. Solo, la veste con cui ha deciso di presentarsi è ben diversa da quella precedente. Molto più modaiola, potremmo dire. O paracula, se vi aggrada di più. In un periodo in cui (e questo potrebbe in effetti costituire un fattore unificante) tanti si lamentano che nel rock 2.0 non esiste una chitarra manco a pagarla oro e che testate di riferimento come Pitchfork si sono messe di colpo ad incensare tutto ciò che viene prodotto dallo schermo di un computer e non più in una canonica sala prove. In un periodo così, appunto, la scelta di Vernon di vestire di sperimentazioni elettroniche il proprio songwriting folk, sembra apparire totalmente allineata. 

È comunque spiazzante, inutile illudersi. Si tratta di un’uscita importante e come in tutti questi casi, la via di mezzo non esiste, come abbiamo detto. Come sempre, ovviamente, prevarrà il metro soggettivo. O il desiderio, legittimo o meno, di affermare a priori una certa idea. Funziona così da sempre e non ci scandalizzeremo certo ora. 

E veniamo all’ultimo disco. Loro sono i White Lies, vengono da Londra e in questi giorni hanno pubblicato “Friends”, il loro quarto lavoro in studio. Meno celebri di Interpol o Editors, le band di Dark Wave anthemica a cui bene o male si sono sempre accostati, hanno però una scrittura validissima e, contrariamente agli altri due, hanno sempre saputo mantenere alto il livello delle loro produzioni. 

Qui non fanno eccezioni ma sembra che qualcosa sia cambiato: a partire dall’opener “Take It Out On Me” e via per tutte le restanti nove tracce dell’album, si assiste ad un remake perfetto di quelle sonorità anni ’80 che ai tempi scalavano le classifiche di mezzo mondo e che ora sono propriamente materiale da nostalgici. 

Avete presente “Stranger Things”? Ecco, se è vero che quella serie TV è riuscita ad incarnare da sola ciò che davvero è l’essenza della cultura della “Retromania”, “Friends” dei White Lies lo fa per quanto riguarda la musica. Tastieroni, chitarre, batteria ridondante ed effettata, ritornelli irresistibili, come se i Simple Minds di “New Gold Dream” si sposassero coi Bon Jovi di “Slippery When Wet”. Non c’è nulla di fuori posto in questo disco, è tutto bellissimo e godibilissimo ma appartiene ad un’altra epoca, lo si avverte in ogni nota. 

Qual è il senso di tutto questo? Non lo so, non credo che un senso ci sia, dopotutto. 

Semplicemente, mi colpiva constatare come, nella proliferazione incessante di band e nella sovrabbondanza creativa di questo scorcio iniziale di Terzo millennio, si intravedano queste tre soluzioni, per provare a comunicare le proprie urgenze: assorbire compulsivamente la tradizione e risputarla fuori masticata e digerita in forme non vecchie ma nemmeno così nuove, accodarsi pedissequamente a sonorità che qualcuno (il pubblico o chi per lui) ha dichiarato essere di moda, evocare con passione gli anni indimenticabili della nostra giovinezza, quando ogni cosa ci sembrava migliore forse non solo perché lo era ma anche e soprattutto perché eravamo nella migliore disposizione per godercela. 

Di nuovo, vuol dire qualcosa tutto questo? Non credo. Se non che i dischi belli continuano ad uscire e c’è sempre gente (di più di quanto immaginiamo) che continua ad accorgersene.