“Sincerità, coerenza, professionalità, cortesia, pietà, educazione, sollecitudine, orgoglio, onore, amore, fede nella e fedeltà alla famiglia, impegno, entusiasmo per il lavoro e un’insaziabile fame di vita”: alcune delle lezioni che ho imparato da mia madre, dice Springsteen, “e che ancora oggi mi sforzo di mettere in pratica”. Dove sono capitato, ho pensato, questa non può essere l’autobiografia di una rock star. Per quanto crediamo di conoscere i nostri beniamini, c’è sempre molto di più di quello che pensiamo di sapere. Chi avrebbe mai immaginato ad esempio uno Springsteen 60enne, seduto da solo su una panchina davanti al mare a piangere come un bambino, consolato da una vecchietta? D’altro canto, scrive Springsteen, “non di rado i dischi sono come il test di Rorsach; ci sentiamo quello che vogliamo sentirci”. E così è la vita.



Qualcuno ha definito questo libro un “American Graffiti” – nel senso del film, che poi sono bellissimi tutti e due, il primo e il secondo. Ci ha azzeccato anche se l’intento era denigratorio, perché come quei film ci avevano mostrato un’America inedita, questo libro ci mostra un uomo che non conoscevamo, lontanissimo da ogni stereotipo che ci eravamo costruiti, e ci fa capire, ad esempio, perché, a 66 anni di età può suonare Twist and Shout per un quarto d’ora felice come un bambino dopo aver suonato e sudato per altre quattro ore. 



Lo capiamo quando rivediamo insieme a lui quelle centinaia di locali lungo il Jersey Shore dove per anni si è esibito, descritti in ogni minuzia, in ogni particolare, in ogni faccia, in ogni asse del bancone del bar, in ogni rissa, in ogni ragazza e ragazzo. Era il chitarrista di una bar band e tale è rimasto ancora oggi: “Casomai non ve ne foste accorti questo è un bar, imbecilli” dice a lui e ai suoi musicisti l’ennesimo proprietario di una bettola che li licenza perché sono troppo bravi, e se la band sul palco è troppo brava, la gente si dimentica di consumare. Quanti calci nel culo in queste pagine, roba da smontare chiunque. Non Springsteen.



Sono pagine che trasudano onestà e semplicità – qualcun altro ha scritto che il libro è noioso e che lui scrive senza capacità di comunicare sentimenti e profondità. Quantomeno, anche se fosse così ma così non è, questo libro ci permette di farci almeno un paio di compilation di strepitosi brani doo wop, soul e R&B che solo Springsteen e il regista di American Graffiti ricordano ancora, grazie allo sfracello di canzoni che in queste pagine vengono citate. 

Ma basterebbe la descrizione di Big Sur quando arrivano i primi raggi di sole all’alba, dopo esserci arrivato di notte, volo di migliaia di farfalle azzurre compreso, per dire che sì, Springsteen scrive bene e sa comunicare emozione, sentimento e bellezza. O anche quando racconta di essere rimasto bloccato da una tempesta di neve sulle Montagne Rocciose e quel senso di straniamento e trascendenza allo stesso tempo, di fine del mondo e di ogni certezza del nostro ego smisurato che lo prende nel silenzio assordante che lo circonda.

Così come sentiamo il puzzo dei marciapiedi di Freehold. Martin Scorsese ne saprebbe tirare fuori un film bellissimo. Ah lo ha già fatto, era Taxi Driver (“Scendendo per una Main Street deserta a mezzanotte passata mi sarei guardato attorno, in cerca e in attesa di qualcosa di nuovo. Avrei osservato le stanze illuminate dentro le case, domandandomi quale fosse la mia. Ne avevo mai avuta una, di casa? Avrei superato la caserma dei pompieri, la piazza del tribunale, il palazzo nel quale lavorava mia madre, la fabbrica di tappeti abbandonata, e poi giù per Institute Street, la Nescafè e il campo da baseball, l’imponente faggio rosso davanti al nulla dove un tempo sorgeva la casa dei nonni, le croci bianche fuori città per i nostri eroi caduti in guerra, i miei defunti al cimitero di St Rose, la nonna, il nonno e zia Virginia e infine il buio pesto delle strade rurali della contea di Monmouth”).

Ogni capitolo è un racconto in cui si intravvede la stessa passione per i dettagli, le voci, gli sguardi, le strade con il loro mistero, la miseria umana e la redenzione che si trovano nei racconti di Flannery O’Connor. Mica male per uno che scrive in modo noioso. 

E’ dotato di sana autoironia (“Ci sarebbero voluti anni prima che diventassi anche io un riccone che si guarda l’ombelico”), così come di attenzione per l’altro: “Gli domandai cosa ci facesse lì. “Ho un sacco di soldi ma non sono felice” mi rispose. Sarebbero passati anni prima che potessi lamentarmi per lo stesso motivo, ma qualcosa in quell’uomo mi commosse”.

Basta tutto questo per fare di un ragazzino del New Jersey una star mondiale? No, non basta, e quanti sono i nomi in queste pagine di validi musicisti che si sono poi persi per strada. 

Per Springsteen ci sono due punti costitutivi che l’hanno reso ciò che è: il rapporto distruttivo con un padre malato di depressione ed essere cresciuto in un ambiente cattolico.

Se la malattia del padre ha inciso in lui fino a trasmettergliela, Springsteen, a differenza dei tanti nelle stesse condizioni che in quel buco nero finiscono per perdersi, ha saputo trasformarla in energia positiva. Un percorso faticoso (“avrei dedicato il resto della vita a stabilire dei limiti che mi permettessero di condurre un’esistenza e intrattenere relazioni sufficientemente normali”), mai concluso realmente neanche oggi, ma che in qualche modo gli ha permesso di riscattarsi: “Avrei dedicato il resto della vita a cercare un posto tutto mio, uno sfogo per la rabbia che mi covava dentro, trovandolo nella musica: un tentativo disperato e ininterrotto di ricostruire il mio tempio sicuro sulle ceneri della memoria e del rimpianto”. Ma “le guerre psicologiche non finiscono mai: esistono soltanto il presente e una fiducia precaria nella tua capacità di evolvere. Non è un’arena nella quale chi è insicuro può cercare certezze assolute e non ci sono vittorie definitive. Si tratta di un cambiamento ‘vivo’ pieno dell’instabilità e del caos della nostra personalità, un passo avanti e due indietro”.

Il secondo elemento è la Chiesa o almeno l’esperienza che ne ha fatto Springsteen, a quei tempi – e spesso ancora oggi – trasmettitrice di dogmi svuotati di ogni contenuto, scatoloni vuoti imposti alle persone anche con la violenza (l’immagine del monsignore che trascina per la testa sull’altare Springsteen-chierichetto perché non sa recitare le preghiere in latino è di una violenza estrema): “l’incenso, i crocifissi, il dogma, memorizzato fino alla nausea, la Via Crucis del venerdì, uomini e donne in abito talare nero, la tendina del confessionale, lo sportello scorrevole, il volto del sacerdote nell’ombra e l’enumerazione dei peccati infantili (…) quanti peccati potevi aver commesso in seconda elementare?”. 

Una Chiesa-ideologia, totalmente dimentica della carne e del sangue del Cristo, una Chiesa che in quel periodo storico (gli anni 50) ha contribuito in maniera perversa a far scappare i fedeli dalle sue mura e così ha fatto anche con il giovane Springsteen. Eppure qualcosa resta dentro. Magari grazie a quella medaglietta sacra che suor Charles Marie gli regala dopo aver assistito all’aggressione del monsignore (“una gentilezza che non ho mai dimenticato”): “Crescendo cominciai a notare tracce di quell’imprinting nei miei pensieri, reazioni e comportamenti e con grande sconcerto e desolazione dovetti riconoscere che se si è stati cattolici, lo si rimane per sempre. Perciò smisi di prendermi in giro: oggi frequento di rado la religione, ma so che da qualche parte, nel profondo, faccio ancora parte della squadra”.

Tutti e due gli elementi creano il corpus creativo delle canzoni del futuro Boss: “Ero sicuro di aver contemplato il volto ferino di Satana, quando invece era il mio povero vecchio padre che furibondo e ubriaco aveva messo a soqquadro la casa nel cuore della notte  spaventandoci a morte. Avevo percepito la forza distruttrice delle tenebre incarnata nel mio sventurato papà, la minaccia fisica, il caos emotivo e il potere di non amare”.

Mischiandosi in modo inconscio, a volte uno sopraffacendo l’altro e viceversa, sono due filoni che scorrono per la gran parte del songbook di Springsteen. Non i soli naturalmente (c’è anche la smagliante struttura dello storyteller purosangue, le visioni cinematografiche, l’impegno sociale). Il primo elemento fa capolino nei lavori più “oscuri”: Darkness on the edge of town, gran parte di The River, Nebraska. Il secondo in album comeGreetings, Born to Run, The Rising, Devils and Dust, mentre Tunnel of Love li contiene tutti e due (come il protagonista della canzone che sulle dita di una mano ha tatuato la parola hate e su quelle dell’altra love).

Lo dice lui stesso: “Il cattolicesimo aveva poesia, rischio e mistero, tutti elementi che facevano breccia nella mia immaginazione e nella mia interiorità. Era una terra di aspra e grandiosa bellezza, di storie fantastiche, di punizioni inimmaginabili e ricompense infinite. Un luogo magnifico e commovente che mi aveva plasmato o nel quale ero stato infilato a forza (…) Da ragazzo tentavo di capirlo e di raccoglierne le sfide perché è vero che possiamo perdere l’anima o essere ammessi in un regno d’amore”. Flannery O’Connor non avrebbe potuto dirlo meglio.

Leggendo questo libro non ho visto il futuro della letteratura (e il suo nome non è Bruce Springsteen). Ma mi sono divertito, ho pianto e ho ritrovato una corrispondenza che non avrei mai pensato fosse tale, io che non so tenere in mano una chitarra: “E’ a questo scopo che ho sempre usato la mia musica e il talento. E’ un balsamo, uno strumento per scovare indizi, una finestra sul lato più misterioso della mia vita”. Come quando a 18 anni lo vidi in piedi su un pianoforte con la chitarra puntata verso il pubblico (e quindi anche verso di me, anche se attraverso allo schermo di un cinema) e mi fece intuire che la vita è qualcosa di più grande che ci supera da ogni parte. E in alcune serate di autunno incipiente, in cui avevo bisogno di sentirmi giovane, questo libro mi ha fatto sentire come se stessi leggendo di musica per la prima volta (citazione d’obbligo). 

Ho ritrovato il mio dolore nel suo dolore. Ho potuto guardare anche io mio padre e perdonarlo e ho sperato che un giorno anche le mie figlie potranno perdonare me. Spero soprattutto di riuscire prima o poi a perdonare me stesso.  “Le persone che imitiamo sono quelle il cui amore non siamo riusciti a conquistare”, dice Springsteen, “è rischioso, però ci fa sentire vicini a loro, dandoci l’illusione di una intimità mai esistita”. 

Come Springsteen, anche io me ne sono andato da una città di perdenti ma a differenza sua non ho vinto. Non importa. Ho chiuso il libro e ringraziato Chi di dovere per tutto quello che ho avuto e, da lontano, condiviso con l’autore di queste pagine. Poi ho messo su Good Times di Sam Cooke: “E’ mai esistita una canzone più triste e rassicurante?”.