Cosa succederebbe se Zeus, in un attimo di bontà, decidesse di concedere una pausa a Sisifo e gli regalasse un violino?

Probabilmente quest’ultimo costruirebbe una barricata di musica e parole sulla cima del monte nel tentativo di arginare l’inarrestabile caduta del suo fardello. Ci proverebbe, sì, e non per burlarsi nuovamente degli dèi ma, per dirla con Camus, per provare a infondere un nuovo senso, ancor più profondo e coraggioso, all’assurdità della propria esistenza.



Ma è possibile opporre l’arte alla barbarie? Michele Gazich pensa di sì, nonostante le infinite difficoltà, e nonostante le parole pronunciate da Theodor Adorno dopo la Seconda Guerra Mondiale: «Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie». Un’affermazione che pesa come un macigno. «Pur con un incombente senso di sconfitta, conscio che la battaglia è probabilmente già persa da tanto tempo e con l’anatema di Adorno tatuato sul mio polso», spiega il violinista, «ho chiamato a raccolta questo gruppo di amici, di sodali e di sopravvissuti e insieme abbiamo provato a edificare questa barricata di suoni e di parole. È un argine debole di fronte alle onde ormai solo anomale […] che spazzano la Terra sempre più piatta ed erosa di questo interminabile dopo-Auschwitz, onde terrificanti che ci trascinano come bottiglie vuote. Voglio credere che questa barricata possa resistere, perché costruita con la dedizione dell’amore».



Gli amici che hanno risposto alla chiamata di Gazich (voce, violino, viola, pianoforte) formano un manipolo piuttosto nutrito, appassionato e variegato: a partire dai fidati Marco Lamberti (chitarra elettrica, bouzouki, voce), Alessandra Rossi (clarinetto, sassofono, voce) e Francesca Rossi (violoncello, voce), per poi continuare con la dark lady del rock italiano Rita Lilith Oberti (voce), il cantautore siciliano Salvo Ruolo (voce), Frank Deja (voce), Valerio Gaffurini (voce), Pietro Campi (tromba, voce), Stefano Valla (piffero dell’Appennino), Jacopo Pellicciotti (zampogna a chiave del Sannio, zampogna zoppa della Sabina), Paolo Costola (basso elettrico, chitarra elettrica baritona, voce) e Alberto Pavesi (batteria, percussioni).



Ma la barricata eretta da Gazich e compagni non è che la punta dell’iceberg, il culmine dei numerosi viaggi compiuti dal violinista errante in lungo e in largo per l’Italia e l’Europa. A volte gli artisti vedono ciò che altri non vedono perché hanno il coraggio di seguire rotte invisibili, calcando strade che rischiano di sparire per sempre dalla faccia di questa «Terra sempre più piatta ed erosa». 

Ebbene, il nuovo lavoro di Michele Gazich ci accompagna alla (ri)scoperta della Via del sale. «Un tempo il sale era prezioso come l’oro», spiega il violinista, «e preziose erano anche le vie attraverso le quali veniva trasportato in tutto il mondo conosciuto: queste vie oggi hanno perso il loro senso originario e i luoghi che esse percorrevano sono abbandonati, quasi dimenticati. Un giorno anche gli oleodotti saranno dimenticati. Ho spesso percorso la Via del sale che, in Italia, si arrampica dalla Liguria sull’Appennino per poi scendere lungo la pianura padana. Oggi è poco più di un sentiero tra paesi disabitati o in procinto di diventarlo: è un monumento umile, a ricordo della gloria passata».

Attenzione però, riflettete bene prima di mettervi in cammino, perché questa non è una scampagnata da affrontare a cuor leggero. Quello che Gazich ci propone è un Viaggio al centro della notte: «Questo testo è un omaggio a San Giovanni della Croce e alla sua inquietante “teologia negativa”. La conoscenza di Dio non giunge attraverso una marcia trionfale sulle autostrade dell’intelletto, ma piuttosto attraverso l’incerto brancolare della mente che viene meno. È una non rassicurante non-conoscenza, in fondo in fondo per nulla distinguibile da un’assenza: un avanzare nel buio, un’esplorazione della tenebra». Quello che Gazich ha dipinto per noi è un ritratto «dell’Europa di oggi, l’Europa non più madre». 

Un’Europa attraversata da «vie del sale passate e presenti, luoghi-chiave improvvisamente svuotati, luoghi dove La vita non vive, luoghi dove anche i rapporti tra gli esseri umani si svuotano e diventano scheletri di rapporti, di famiglie, di coppie, di sentimenti». Un’Europa «priva di memoria», che ha dimenticato «le radici umanistiche e tolleranti grazie alle quali nacque».

Il grande merito umano e artistico di Michele Gazich è quello di non essersi arreso alla dittatura della barbarie, di aver trovato dentro di sé il coraggio di andare alla ricerca di «musicisti e strumenti tradizionali legati ai tempi che furono, quando La via del sale era importante». Il coraggio di recuperare «questi strumenti arcaici» con l’intento di accostarli «al mio violino, alla mia voce e ad altri voci e strumenti decisamente contemporanei, perché non volevo realizzare un’operazione nostalgica e revivalistica o un calligrafico esercizio di stile che non turbasse le coscienze». 

Il violinista errante ha infuso nuova vita a questi strumenti «strappandoli dalle loro terre e contestualizzando il loro rimpianto, il loro grido e il loro lamento in musiche e parole che ho composto oggi – qui ed ora – per raccontare l’Europa di oggi, fatta di resti industriali, maestose rovine del terziario, biblioteche sommerse dalle acque, città distrutte, migrazioni e barricate: le nostre contemporanee Vie del sale». Uno scenario non proprio rassicurante, ma c’è davvero un’alternativa sensata all’esplorazione della tenebra? Chi scrive pensa che sia meglio diventare maestri nell’arte della fuga piuttosto che affondare come La biblioteca sommersa di Colonia. A voi la scelta…