Nel piccolo mondo del rock, la notizia del Premio Nobel per la letteratura a Bob Dylan tiene banco da ormai diversi giorni, complici anche le polemiche scatenate da accademici, scrittori, letterati, giornalisti, opinionisti e tuttologi assortiti. Al di là delle considerazioni su cosa è letteratura e cosa non lo è, della misura rivoluzionaria introdotta nel mondo anglofono dal linguaggio di Dylan e del fatto che il Nobel a lui conferito non è certo il primo riconosciuto a qualcuno non considerabile come un letterato vero e proprio – si vedano i casi di Henri Bergson, di Winston Churchill (proprio l’uomo politico inglese) fino ad arrivare a Dario Fo – la motivazione dell’Accademia svedese ha posto il focus dell’attenzione sull’importanza delle parole nella musica leggera.
La controindicazione di questa attenzione, che spesso ha portato ad eccessi macroscopici, specialmente in Italia, è leggere il testo di una canzone approcciandosi come se si avesse di fronte qualcosa di morto, di statico. E invece, una canzone è vita. E ciò che le dà vita è la musica, è la tensione creata fra le parole, la melodia, l’arrangiamento, la strumentazione utilizzata, la tonalità della voce, il tutto mescolato sino a creare un unicum mai replicabile due volte nella stessa maniera. Certo, le parole sono importanti, ma quando le parole prendono il sopravvento sulla musica, il risultato è alla fine squilibrato.
Questo vale per Dylan – che, lo ripetiamo, è un artista che ha rivoluzionato e continua a rivoluzionare persino l’uso della lingua inglese – ma vale a maggior ragione per autori considerati di poco inferiori all’artista del Minnesota. Vengono in mente Paul Simon, Bruce Cockburn, Joni Mitchell, Jacques Brel, Lou Reed, Leonard Cohen…ALT!
Leonard Cohen. La situazione qui è un po’ più complessa… Già, perché, a differenza di tutti gli altri nomi citati prima, Dylan compreso, quando l’artista canadese diede alle stampe il suo disco d’esordio – il memorabile Songs of Leonard Cohen – aveva già pubblicato quattro raccolte di poesie, peraltro ottimamente accolte dagli ambienti accademici, al punto da ottenere già nel 1968 l’onore di veder pubblicata dall’Università di Toronto una propria antologia scelta, e due romanzi, anch’essi ben accolti.
Inevitabile che, quando il suo primo album fu pubblicato, l’attenzione si rivolgesse soprattutto sulle parole delle canzoni, complice anche una voce dalla limitata estensione e un certo minimalismo negli arrangiamenti, basati tutti su uno scarno accompagnamento di chitarra e su qualche contrappunto vocale, e nella registrazione, per nulla curata o levigata.
Eppure ad un ascolto un po’ meno superficiale, quell’album svelava elementi sorprendenti: gli accompagnamenti di chitarra di Cohen, prevalentemente arpeggiati, erano tutt’altro che banali o facili da riprodurre, i contrappunti vocali femminili slanciavano verso l’alto le melodie e sarebbero diventati il suo marchio di fabbrica impresso sino ad oggi, le progressioni di accordi erano più fantasiose di quanto apparisse superficialmente.
Tuttavia, seppure su vette quasi irraggiungibili, i lavori di Cohen hanno sempre lasciato un certo senso di incompiutezza, con il minimalismo – con l’eccezione del guazzabuglio di Death Of A Ladies Man, tentativo mal riuscito di affrancarsi dalla figura dell’intellettuale prestato alla canzone e reso indigeribile dal pastone di suoni montato quasi a caso da Phil Spector e da una scrittura ampiamente deficitaria (su tutte l’imbarazzante Don’t Go Home With Your Hard-On – letteralmente “Non andartene a casa con il c…zzo duro” – che vedeva ai cori, oh la la!, perfino Bob Dylan) – che, più che una precisa scelta stilistica, è sempre sembrato essere figlio di una scarsa cura dei dettagli. La scarna discografia coheniana è profondamente intrisa di questa impressione.
Album come Songs Of Love And Hate, registrato malissimo e suonato al limite dell’accettabilità, l’abbuffata di suoni anni Ottanta di Various Positions e I’m Your Man, passando per l’algido suono sintetico delle opere dei Duemila Ten New Songs e Dear Heather, al netto di una scrittura elevatissima e di melodie spesso memorabili, spesso non facevano nulla per magnificare la – già altissima – profondità delle canzoni contenute e, anzi, a volte ne soffocavano il respiro.
Unica – quasi – eccezione, Recent Songs del 1979, nel quale Cohen sembrava osare un po’ di più a livello di produzione e che avrebbe trainato con sé la magnifica tournée dalla quale è stato, in tempi relativamente recenti, estrapolato il live Field Commander Cohen, affresco nel quale, finalmente, le canzoni del Canadien Errant trovavano una compiutezza inedita, ornata di sonorità sofisticate e afrori etnici.
Non è un caso che, per la lunga serie di concerti che ha visto Cohen impegnato dal 2008 al 2015 (serviti a ripianare una situazione finanziaria a dir poco disastrosa), il canadese sia partito proprio dalle basi di arrangiamento e dal bassista e band leader Roscoe Beck che avevano caratterizzato il tour del 1979.
Il risultato era stato il memorabile Live in London del 2009, il disco di Cohen da cui partire nello sciagurato caso in cui non possediate nulla, nel quale, finalmente, le canzoni erano magnificate da arrangiamenti e da un’esecuzione finalmente all’altezza.
Tuttavia, da un punto di vista della produzione, se i risultati dal vivo toccavano vertici mai raggiunti prima dal canadese, lo stesso non si può dire di Old Ideas e Popular Problems, dischi in studio usciti rispettivamente nel 2012 e nel 2014, i quali, seppure forieri di una vena compositiva sorprendente per un autore a cavallo fra i settanta e gli ottant’anni, perseveravano nella scarna incompiutezza degli arrangiamenti, freddi e poco curati.
In poche parole, considerando anche l’attenzione di Cohen, figlio di un sarto, all’eleganza nel curare il vestiario, è come se gli abiti indossati dalle sue canzoni, splendidi modelli, fossero sempre stati o troppo stretti o troppo larghi, incapaci di mostrare le meravigliose forme del corpo.
La notizia della pubblicazione di un nuovo album, dal titolo You Want It Darker, per un artista che oramai ha superato gli ottantadue anni, non faceva presagire un cambio di rotta sensibile. Ma qui sta il primo miracolo: il nuovo disco è indubbiamente il miglior disco in studio di Leonard Cohen per quanto riguarda il suono e gli arrangiamenti.
Il merito va per la gran parte al figlio Adam, anch’egli ottimo musicista ed autore (ascoltare per credere l’ottimoWe Go Home del 2014), che per la prima volta assiste il padre nel lavoro discografico, curando la produzione.
Il risultato è incantevole: le tipiche melodie di Cohen, scarne eppure celestiali (non a caso Bob Dylan ha paragonato il canadese al grande compositore Irving Berlin, invitando a non sottovalutare le sue doti di autore delle musiche), come al solito contrappuntate da eterei cori femminili, sono finalmente fasciate da arrangiamenti cuciti su misura, perfettamente calzanti e rifiniti nota per nota intorno ad una voce grave e dolente, magari poco dinamica ma mai così drammatica ed evocativa.
In questo senso, i poco più di trenta minuti, divisi in nove tracce, di You Want It Darker potrebbero essere autosufficienti anche senza conoscere o senza comprendere le parole. Si passa dall’ossessività del brano che dà il titolo al lavoro, sostenuto da un coro evocativo e misterioso, ad una Treaty che ha il passo di un inno liturgico, con il contrabbasso e gli archi a punteggiare l’accompagnamento di pianoforte, mentre la voce sussurra parole di diretta derivazione biblica.
On The Level inizia come una ballata classica per poi assumere un incedere blueseggiante, sostenuta da piano ed organo e con piccoli intarsi di chitarra elettrica a dare sostanza. La chitarra prende poi il sopravvento inLeaving The Table, dalla melodia tipicamente coheniana, così come tipicamente coheniana è la melodia di If I Didn’t Have Your Love, nella quale ancora una volta il lavoro di piano ed organo è magistrale.
Travelling Light inizia come quella The Gipsy Wife che apriva l’album Recent Songs ed si colloca a metà strada fra le canzoni di quel disco, caratterizzate da strumenti a corda etnici e cori femminili, e qualcosa di indecifrabilmente più moderno, dettato da un loop elettronico e da un piano elettrico Fender Rhodes.
It Seemed The Better Way è aperta da un coro algido e glaciale cui subentra un violino struggente e, proveniente quasi dagli inferi, la voce di Leonard Cohen che ringhia parole a metà fra la rabbia ed il disincanto dettati dal sentimento di perdita.
Ancora i violini, insieme a dei legni dal sapore mediorientale, sono i protagonisti di Steer Your Way, la canzone dall’andamento più apocalittico dell’intero album, tesa ed incalzante, con un basso ossessivo e dei passaggi armonici per nulla banali.
L’album si chiude quindi con una ripresa orchestrale di Treaty che suona assieme come una ninna nanna ed un vero e proprio commiato, di una bellezza abbacinante.
Sì, ma le parole, direte voi?
A livello di parole, You Want It Darker pare chiudere una trilogia inconsapevole di dischi sulla morte usciti in questo 2016, collegandosi idealmente alle tematiche di Black Star di David Bowie e di Skeleton Tree di Nick Cave. Solo che se la prospettiva di Bowie era quella di un uomo che guarda il proprio disfacimento con una posizione quasi ossessiva e quella di Cave era una lunga e dolorosa meditazione sulla morte dal punto di vista di chi subisce una perdita, quello di Cohen è lo sguardo di un uomo anziano che si prepara giorno per giorno ad andare incontro ad un mistero, da un lato accettandolo (il “Sono pronto, Signore” di You Want It Darker) ma dall’altro guardando il passato ora con malinconia (Treaty e If I Didn’t Had Your Love), ora con una certa dose di cinismo e di durezza (On The Level e Stear Your Way).
Il linguaggio è più che mai intriso di visioni metafisiche e di citazioni bibliche ed ha l’andamento della poesia di Robert Frost e, a tratti, di T.S. Eliot, in special modo per il suono delle parole scelte.
Non che l’opera di Cohen sia sempre stata intrisa di sola spiritualità (e, anzi, la crudezza dei versi di vecchie canzoni come Chelsea Hotel n. 2 – “mi stavi facendo un pompino/mentre le Limousine aspettavano in strada” – o The Future – “dammi crack e sesso anale/prendi l’ultimo albero rimasto/e ficcalo nel buco della tua cultura” – è raramente rintracciabile in altre canzoni “d’autore”) ma ascoltando questo You Want It Darker si ha l’impressione di un uomo arrivato ormai alla fine di una strada tremendamente tortuosa e che guarda in faccia il Mistero, senza che però sia venuto meno uno strenuo e struggente attaccamento alla vita.
Bisogna lasciarsi guidare da Cohen, perché questo You Want It Darker, oltre ad essere il più bel disco mai pubblicato da un ultra ottuagenario, è il segnale che l’autore canadese ci lascia per seguirlo sulla strada di quel Mistero.