Oggi l’eternità è un concetto vuoto, quasi astratto, relegato negli ambiti più reconditi del pensiero filosofico e della teologia, così distante da una quotidianità che vive di attimi, di momenti da vivere intensamente, spesso dimensioni illusorie di un’esistenza che ha voltato le spalle ad ogni ricerca dell’Assoluto, per approdare ad un ideale il più delle volte materialistico, quasi sempre intriso di empirica ricerca di semplici risposte contingenti, finalizzate a sé stesse.
Le dimensioni del sacro si sono sempre più ristette, quasi accartocciate sulla propria incapacità di farsi comprendere da un mondo contemporaneo che naviga a vista, fiero delle proprie libertà e prigioniero delle proprie incertezze.
Il rock’n’roll fu inizialmente tacciato di essere una musica dozzinale, priva di profondità, lontana da ogni connotato di ricerca spirituale e diluita a dismisura come musica di intrattenimento per una gioventù in cerca di vie liberatorie ai propri dilemmi esistenziali.
Oggi tutto questo fa solo sorridere, nell’anno in cui un premio Nobel della letteratura è stato assegnato ad uno dei padri di questa corrente musicale, a quel Bob Dylan che dal 1962 canta le sue storie che raccontano l’uomo del nostro tempo, aprendo squarci nella tela di una condizione esistenziale che il poeta di Duluth ha sempre saputo narrare con la lucidità del saggio e le visioni del profeta.
La dipartita di David Bowie è ancora ben lungi dall’essere completamente metabolizzata, e non soltanto dai suoi cultori, di vecchia data e non.
Le lunghe code che affollano l’ingresso della mostra “David Bowie Is” al Mambo di Bologna sono una chiara testimonianza in questo senso, e non basta parlare di semplice curiosità, di interesse crescente verso un artista dovuto ad una morte tanto improvvisa, quanto segnata da una serie di coincidenze quanto meno sorprendenti.
Non è un “feticismo” di massa vissuto sulle testimonianze mortali che l’artista britannico ci ha lasciato in visione, attraverso i tanti costumi di scena che sono esposti, i testi originali delle canzoni scritti di suo pugno, i quadri, gli eccellenti video e le canzoni che si ascoltano nelle sale della mostra bolognese.
Esiste un senso nascosto, che piano piano affiora, fra le pieghe di un sentimentalismo e di una nostalgia più che naturali, che ogni estimatore del Duca Bianco prova dentro di sé.
L’arte di David Bowie vive una sorta di catarsi, che la porta a venire riconsiderata alla luce dell’ultimo capolavoro del cantante inglese, quel “Blackstar” di cui sono stati versati fiumi di inchiostro e miliardi di pixel sul web, e del musical che va in scena a Londra in questo periodo, “Lazarus”, tutto basato su una serie di canzoni che Bowie stesso ha scritto nel corso della sua lunghissima carriera, riadattate e interpretate da un cast di attori, che recitano sul palco la vicenda di Thomas Jerome Newton, “l’uomo che cadde sulla Terra”, eroe sfortunato del libro di Walter Tevis, portato al cinema e interpretato con grande bravura da David Bowie nel 1976.
L’alieno rivive il suo dramma di esistere in un mondo che non è suo, e la narrazione pare ripartire proprio dalle ultime sequenze del film di Nicholas Roeg, da quell’essere di un altro pianeta, oramai malato e sconfitto.
Gli ultimi anni della vita terrena di David Bowie sono stati segnati da una sorta di esilio, di voluto ritiro, dove il silenzio diventava col trascorrere degli anni una sorta di rumorosa assenza, una mancanza che spiccava e dilatava a dismisura lo iato con il suo passato di autentico dominatore e “manipolatore di mass media”, come spesso la stampa specializzata e non lo descriveva, non senza qualche critica, spesso inutilmente velenosa.
“Lazarus” viene a completare il quadro finale della carriera di David Bowie, come una sorta di rievocazione post mortem di una figura che sembra emergere in tutta la sua maestosa grandezza.
Esiste una sorta di filo rosso trasversale che lega tutte le tappe della vita artistica dell’artista di Brixton.
Sin dalla prima canzone di grande successo, “Space Oddity” narra l’avventura di un astronauta che si perde negli abissi interstellari. Essa parrebbe raccontare una tragedia che si compie nel bel mezzo dell’era dello spazio, una sorta di schiaffo in faccia al clima di ottimismo verso un futuro dominato dalle conquiste scientifiche che impongono la tecnologia come unica via ad un progresso che disegna i futuri orizzonti del genere umano.
Il superuomo che esce dalle pagine della filosofia, si redime dalle tragiche parodie della storia, e si appresta a varcare i confini della fantasia per approdare nella realtà.
“Space Oddity” è tutto questo, ma non è solo questo.
Non è una porta che si chiude, non narra una fine, bensì traccia la linea di un inizio.
“I don’t know where I am going,
But I promise it won’t be boring”
Major Tom non è la vittima di un incidente spaziale, la cui tragica fine viene cantata per il breve tempo di una sola canzone.
Al contrario: Major Tom è un esploratore, che sceglie deliberatamente di solcare le vie sconosciute di un futuro che gli si para innanzi, carico di incognite e di insidie, accettandone coscientemente il rischio.
Non gli interessano le luci della ribalta, dice semplicemente addio ad una vita che sente non essere più la propria, e sacrifica i suoi affetti per partire verso la propria odissea.
La fine della canzone non sembra essere la colonna sonora di un funerale, ma il semplice segnale di attraversamento di una porta, da non intendersi in senso meramente materiale, bensì esistenziale.
Major Tom ha abbandonato la vita quotidiana, ha indirizzato la propria navicella spaziale verso orizzonti infiniti e oscuri, illuminati dai bagliori di stelle e galassie, simboli figurati di traguardi lontani che possono portare la sua percezione spirituale e psicologica su livelli molto più alti di quelli che sta vivendo in quel momento.
“Space Oddity” è semplicemente l’inizio di un viaggio, che viene narrato attraverso le forme canoniche di un ventesimo secolo che vive l’ebrezza e l’incanto di un futuro che si fa presente.
In un altro tempo, Major Tom sarebbe stato Ulisse, e la sua avventura si sarebbe consumata attraverso le pagine epiche rese famose da un grande iniziato come Omero.
Oppure avrebbe preso le forme di una salita verso l’assoluto, come uno di quei “Fedeli d’Amore” a cui Dante Alighieri fa cenno nei suoi scritti.
“Io non so ben ridir com’io v’entrai, tant’era pieno di sonno a quel punto, che la verace via abbandonai”. Questi versetti del primo canto dell’Inferno sembrano quasi illustrare la stessa situazione di Major Tom, lo stesso iato che si apre verso una dimensione ignota, dove le sicurezze del quotidiano vengono distorte e rivoltate da leggi infinitamente più complesse.
Occorre sempre estrapolare l’essenza dal contesto in cui è stata infusa, tracciare dei collegamenti che ci aiutino a compiere anche noi quel viaggio che l’Artista ha inteso vivere nel corso di una carriera quanto mai intrisa di significati e di allegorie molto particolari, dove certe allusioni venivano appositamente mescolate in maniera sottile alle facili provocazioni che volevano sedurre un pubblico, il più ampio possibile.
Il viaggio di Major Tom si compie attraverso tante mutazioni, quanti sono i personaggi vissuti e interpretati sul palco da David Bowie.
Ognuno di essi pare essere una tappa molto ben definita.
Non a caso l’artista non è mai tornato sui propri passi, non ha mai ripreso gli antichi costumi dismessi, ma, al contrario, ha sempre cercato di proporne di nuovi, arricchendo via via col passare dei lustri la propria galleria personale.
L’androgino era la sublimazione di un essere umano che aveva appena smarrito la propria identità originaria (Platone – Simposio), ed era quindi partito alla ricerca di sé stesso, scoprendosi sperduto nel proprio orizzonte irto di insidie, a cantare la condizione alienata di un apprendista che aveva gli occhi bendati e gli arti barcollanti.
“The Man Who Sold The World” e “Hunky Dory” esorcizzano con perfezione questa situazione psicologica, dando vita peraltro a due album semplicemente incredibili, dove la rabbia e la violenza del primo si stemperano nell’atmosfera apollinea e soffice del secondo.
“The Rise And Fall Ziggy Stardust And The Spiders From Mars” e “Aladdin Sane” completano il percorso e lo estremizzano, come per compiere un rito di perfezione e di superamento.
Il 3 luglio del 1973 David Bowie “uccide” deliberatamente la sua creatura, e non la incarnerà mai più.
Il viaggio prosegue e prenda la via di un mondo infido che sembra evocare un vero e proprio girone infernale. “Diamond Dogs” e Hallowen Jack sono il volto malato e alienato di un’umanità degradata e sofferente, e anche la musica cambia, trasformandosi, guarda caso, proprio in quella tipica della gente di colore, che in un’America tuttora lacerata dal razzismo è ancora quella degli antichi schiavi.
La black music domina adesso in Bowie. Egli la incarna, se ne fa portavoce.
“The Gouster” e “Young Americans” sono una tappa ulteriore, un’escursione nel male e nell’angoscia che egli sente aumentare dentro se stesso.
E’ il periodo della droga assunta in maniera costante e progressiva, della lontananza dalla propria prima moglie, e degli amori che si susseguono in maniera continua e superficiale.
Il segno della estrema solitudine è il perfetto rimbalzo verso la liberazione.
“Station To Station” è proprio questo, e la sua sintesi sonora costituisce il primo approdo veramente “compiuto” di Bowie.
Le successive dichiarazioni sul periodo in questione sembrano quasi fatte apposte per celare l’evidenza. Con questo album l’artista inglese chiude un primo cerchio, esaurisce un ciclo creativo ed esistenziale, e sente la necessità di aprirsi ad una nuova tappa.
Le droghe vengono faticosamente abbandonate, l’America viene momentaneamente salutata.
E se Hunger City era solo una cittadella dell’immaginario, Berlino rappresenta al contrario la personificazione degli incubi di quegli anni.
Il passato segnato dalla tragica ferocia nazista, il presente vissuto attraverso la scissione dell’Io.
L’identità tedesca è spaccata in due, fra un occidente saturo di merci da consumare, e un oriente che calpesta ogni libertà in nome di un Sole dell’Avvenire la cui luce si fa rosso sangue.
Qui Bowie ritrova finalmente la sua condizione esistenziale.
Il suo “Io” più profondo è come la capitale tedesca.
E da questo dualismo crea gli album più ispirati e innovativi di tutti gli anni settanta.
Un altro ciclo si chiude, e, guarda caso, Major Tom ritorna ancora, citato nei versi di una canzone tanto bella, quanto definitiva.
Perché questa volta di un vero e proprio funerale si tratta.
E’ un giro di boa.
L’uomo e l’artista non saranno più gli stessi di prima.
Il successo planetario, la carriera cinematografia, la raggiunta maturazione umana e psicologica, portano David Bowie ad incarnare il modello di un artista perfettamente inserito nel proprio contesto sociale.
Durerà lo spazio di un intero decennio, poi l’equilibrio si frantumerà nuovamente, e la ricerca porterà l’artista londinese a varcare l’abisso più profondo della propria anima.
Il risultato è un album per certi aspetti mostruoso.
“1.Outside” è un disco pazzesco, animato da una volontà formidabile di andare “oltre”.
Il terrore e l’angoscia vengono descritti attraverso la personificazione dell’arte nel corpo di una bimba. L’artista, ovviamente, prende la parte di un investigatore, e si pone la domanda “è arte?”
Bowie arriva nel luogo più lontano e inaccessibile della sua ricerca esistenziale, e lo può fare perché finalmente forte di una situazione personale stabile e tranquilla.
Il matrimonio con la top model Iman sembra essere la sintesi felice di un’umanità che ha trovato un equilibrio. L’inglese occidentale bianco che sposa la donna di colore africana.
Un’immagine planetaria di seducente bellezza e di sfolgorante pacificazione razziale.
Un altro ciclo si chiude.
Ma la vita continua, la musica pure.
E si nutre del ricordo, degli istanti in cui l’uomo si siede e si contempla di fronte ad uno specchio.
“Hours”, “Toy”, “Heathen” e “Reality” sono la tetralogia perfetta che illustra tutto questo.
La carriera e la ricerca potrebbero finire qua.
Così non è.
Il dolore e la tragedia saranno l’humus che porteranno David Bowie alla perfezione, alla completa trasfigurazione di sé stesso.
I dieci anni di sosta dopo l’intervento al cuore sembrano essere, a posteriori, come il periodo di incubazione di un bruco che sta per diventare una farfalla.
“The Next Day” è l’album dell’insperato risveglio, che non può fare a meno di sollecitare ricordi e rimembranze nell’ascoltatore.
La copertina di “Heroes” mutilata al centro con il titolo del nuovo album rappresenta la presa di coscienza che “quel” passato è oramai storia, e come tale va considerato.
Ma le canzoni sono fluide, a tratti molto belle.
Tutto il disco gode di un’incredibile compattezza sonora, a dispetto dei tanti generi musicali che vengono evocati fra le note del microsolco.
“The Next Day” è il racconto per analogia di un’intera carriera fino a lì vissuta.
Come il titolo fa presagire, è però soltanto il prologo a qualcosa d’altro.
Ciò che segue rende difficile la descrizione, che si fa carica di dolore e di contemplazione verso un’assoluta grandezza.
“Blackstar” è l’opera definitiva, il vero e proprio “Opus Magnum” di David Bowie, e poteva essere realizzata solo ed esclusivamente sotto il terribile pungolo della percezione della morte.
Macrocosmo e microcosmo coincidono perfettamente.
Major Tom ritorna, e racconta due situazioni, una che illustra il presente dell’umanità, l’altra che preconizza il compiersi della vita terrena dell’artista.
L’astronauta il cui corpo è ridotto ad uno scheletro incarna perfettamente il mito del progresso scientifico che le missioni spaziali americane e sovietiche degli anni sessanta avevano reso il volto insieme concreto e ideale di un’alba che disegnava orizzonti votati ad un futuro che sembrava dietro l’angolo. Il progresso scientista e razionale incarnato dalla Nasa sembrava riflettere la luce del Sol dell’Avvenire della mitologia del socialismo reale sovietico. Entrambi i sistemi, in fondo, erano due emanazioni differenti della stessa cultura, votata al raggiungimento di un nuovo mondo che intendeva abrogare un passato oramai considerato morto e sepolto. Ma così non è, e il video mostra chiaramente che quel passato reclama la sua parte, essendo tuttora presente nella psiche dell’uomo. Quel teschio intarsiato di gemme preziose, oggetto di devozione da parte di sacerdotesse che sembrano uscite da visioni ancestrali, simboleggia l’essenza di un mondo magico ed arcano, che riemerge prepotentemente dagli abissi della coscienza, e prende il posto di “quel” progresso, il cui corpo mutilato viene consegnato ad un destino senza scampo.
Metafora dei tempi. L’irrazionale che si concretizza come estrema cura per un’umanità oramai in balia di sé stessa, così ben interpretata da quegli attori che danzano freneticamente come ossessi, con lo sguardo sperduto. È la Stella Nera che Bowie impugna, quasi come un simbolo sacro, un estremo tentativo di diffondere attorno a sé stesso un ‘aura che disperda qualcosa di forte, di potente, di assolutamente magico. Le religioni sono immagini svuotate di significato. E quei tre spaventapasseri, in fondo, ricordano le immagini sacre lacerate contenute nella confezione di “Heathen”, il cui nome significa proprio pagano. Spaventapasseri che sembrano personaggi crocifissi, guardiani oramai ridotti a ridicoli fantocci da parte di un mondo che oramai non crede più alle rivelazioni, ma cerca significati insieme nuovi e profondi. Bowie incarna quell’uomo, prossimo alla fine, che ripete ossessivamente il ” Centro del Tutto”. Quel Centro che solo una Tradizione Universale sa riconoscere, e sa legare in un tutt’uno il Mistero della Vita e della morte. Ed è proprio quel Mistero che David Bowie si trova ad affrontare. Il ciclo che deve chiudere, stavolta, è quello più importante di tutti, quello definitivo.
Major Tom ha terminato la sua corsa, e giace sul terreno di un pianeta condannato ad essere distrutto e fagocitato da un buco nero. E qui si compie ancora un rito magico, che a tratti profuma di antico paganesimo, a tratti evoca immagini che sono quasi archetipi della psiche.
Il teschio intarsiato di gemme viene staccato dal resto dello scheletro di Major Tom, che termina la sua esistenza materiale andando incontro alla propria consunzione finale dentro a quel buco nero che domina il cielo.
La morte trova qui la sua soddisfazione, su questo piano dell’esistenza.
Lo spirito dell’Artista invece viene evocato, reso vivo da una sorta di rito magico, che include la penetrazione nel nostro mondo di una scintilla di Eternità.
E’ questo il messaggio finale dell’Artista.
E’ questo il momento supremo di tutto il percorso iniziato con “Space Oddity”.
David Bowie ha raggiunto il traguardo.
Una delle sue ultime canzoni, “No Plan”, pubblicata proprio in questi giorni insieme alla colonna sonora di “Lazarus” racconta di una dimensione che non appartiene a questo piano piano dell’esistenza.
“Tutte le cose che compongono la mia vita
I miei desideri
Le mie convinzioni
I miei stati d’animo
Questo è il mio posto, senza alcun piano…
Tutte le cose che compongono la mia vita
I miei stati d’animo
Le mie convinzioni
I miei desideri
Io da solo
Niente da rimpiangere
Questo non è un luogo, ma eccomi qui
Non è ancora finita”
No, non è ancora finita.
L’interesse per la musica e l’arte di questo incredibile protagonista della scena artistica degli ultimi cinquant’anni è ancora lungi da vedere il tramonto.
Ma la testimonianza più bella, se mi è permesso, è tutta nelle ultime parole di questa ultima canzone.
“Questo non è un luogo, ma eccomi qui”
La coscienza della possibilità di ritrovare se stesso dopo la morte fisica, credo, sia stata la grande forza interiore di quest’uomo, di fronte alla fine imminente.
Questo è per me il suo più grande lascito.