Fondare un super gruppo potrebbe essere il modo migliore per uscire dalle ristrettezze economiche e dalle incognite che ormai il mestiere di musicista sta distribuendo a tutti, tolti quella decina di nomi che per fama e vendite appartengono ad un’altra categoria.
I Minor Victories sono un super gruppo ma non penso proprio che siano nati per sbarcare il lunario, a giudicare da quel che hanno tirato fuori.
Quando si è saputo che sarebbe uscito il loro disco di debutto, appena prima dell’estate, si è generato un bell’hype, proprio quello delle grandi occasioni.
Pienamente giustificato, per altro: Rachel Goswell è stata la voce degli Slowdive, semplicemente una delle band più importanti in assoluto per quanto riguarda il cosiddetto shoegaze (che poi non siano pienamente riconducibili a quest’etichetta è un altro discorso), band di culto ma anche di un certo richiamo commerciale nella seconda metà degli anni Novanta. Stanno tornando, hanno in cantiere un disco nuovo che dovrebbe vedere la luce nel 2017 ma anche senza questa informazione ci saremmo sciolti lo stesso, a vedere la loro cantante coinvolta nuovamente in un progetto a tempo pieno.
Stuart Braithwaite è l’anima musicale dei Mogwai, che in quello che viene generalmente chiamato post rock oggi non hanno rivali. Il mondo li ha forse conosciuti per la colonna sonora di “Les Revenants” e più recentemente per il progetto “Atomic” ma loro sono vent’anni che scrivono musica a queste profondità.
Il sodalizio tra due anime così diverse è nato grazie a circostanze fortuite (Slowdive e Mogwai condividono lo stesso management) ma l’ingrediente principale, che è poi la voglia di collaborare insieme e scrivere belle canzoni, non è mancato, così come l’apertura ad altri contributi: è entrato in scena in questo modo, Justin Lockey. In forza agli Editors, realtà di punta della scena britannica, musicista dal gusto infinito che negli anni ha sempre accompagnato egregiamente le composizioni di Tom Smith, mettendoci molto del suo.
Justin ha coinvolto suo fratello James, bassista e filmaker, e i Minor Victories sono nati. Ovviamente l’attenzione che il loro debutto ha suscitato è direttamente da collegare alla fama dei tre gruppi da cui provengono, ma questo è stato solo il punto di partenza.
Perché unire dei talenti e far loro scrivere musica assieme non è garanzia del fatto che ne esca un capolavoro. Vale la stessa cosa in tanti campi, non solo nella musica. Deve scattare qualcosa e quel qualcosa, normalmente, segue criteri suoi.
In questo caso, pare che sia successo. Oddio, magari “capolavoro” è una parola che male si addice ad un disco appena uscito, però la qualità è alta, altissima, tanto che parlare di una delle migliori cose arrivate in questo 2016 ci sembra tutt’altro che esagerato.
La cosa impressionante di questo esordio, che non ha titolo, solo il nome della band, è che le tre menti creative del progetto sono riuscite a creare dieci canzoni che sono una fusione perfetta delle tre componenti sonore espresse da ciascuno: ci sono i muri di suono delle chitarra iper distorte tipici degli Slowdive, le atmosfere stranianti e dilatate dei Mogwai, ma il tutto è rivisto con il tocco alternative/stadium rock tipico degli Editors e di altre band del genere.
Ci sono i suoni, dunque, ma ci sono anche i pezzi, a conferma che quando dei musicisti hanno talento e sanno anche scrivere, non possono che far nascere cose meravigliose.
In Italia ci erano già venuti ma erano stati in Sicilia, nella splendida cornice dell’Ypsigrock, uno dei festival più interessanti che la nostra penisola abbia partorito negli ultimi anni.
Chi ci era stato ci aveva detto grandi cose e quindi li attendevamo anche da noi. Occasione unica, perché band come queste hanno vita estemporanea, oggi ci sono e domani potrebbero già essere fagocitate dai progetti principali dei loro componenti.
Siamo dunque contenti di esserci stati. Il Santeria (nella sua nuova sede di viale Toscana) è un locale bellissimo, che meriterebbe decisamente più spazio nell’organizzazione degli eventi. Il pubblico era numeroso al punto tale da riempirlo ed essendo di discrete dimensioni, non possiamo lamentarci dell’affluenza. È sempre il solito problema: una proposta come questa da noi ha poco appeal ma in questo caso stiamo parlando di tre band particolarmente amate dalle nostre parti (soprattutto gli Editors) per cui il gioco è fatto.
L’esibizione ha poi evidenziato alcuni punti che sarebbe meglio fissare: innanzitutto che un concerto non deve essere per forza lungo. L’ora secca senza bis offerta dai nostri è stata di un’intensità tale che non abbiamo proprio sentito il bisogno di aggiungere niente. Repertorio limitato a parte, è proprio l’altissima qualità che è arrivata dritta al cuore. A volte, ciò che hai davanti è talmente bello che va preso a piccole dosi, che rischieresti di rovinarlo se ti dilungassi troppo.
Eseguiti tutti i brani dell’album (tranne “For You Always”, il sincero e a tratti commovente racconto dell’amicizia tra Rachel Goswell e Mark Kozelek, presente anche come ospite alla voce), non resta che salutare, ringraziare per l’affetto e andare a casa.
La seconda cosa è che la dimensione live, per qualunque gruppo, dovrebbe essere totalmente staccata dalla performance in studio: sul palco, ogni singolo episodio del disco ha acquistato nuova linfa, si è trasformato in qualcos’altro, uguale ma nello stesso tempo diverso da ciò che ricordavamo. Stuart Braithwaite è un chitarrista pazzesco e te ne accorgi ancora di più in questa sede: bastano poche note, suonate nel momento giusto, e riesce ad aprire mondi sconosciuti, a disegnare paesaggi sonori che vengono poi punteggiati egregiamente dalle tastiere e accarezzati dalla voce della Goswell, un po’ affaticata e lontana dai tempi migliori (lei stessa non sembra in perfetta forma fisica) ma pur sempre affascinante.
Il muro sonoro è a tratti invalicabile, come nell’esplosione dell’iniziale “Give Up The Ghost” ma è in brani più articolati come “The Thief” o “Folk Arp” che la band può tirare fuori tutto il suo potenziale, con il solito Braithwaite a guidarla per mano tra soffuse strofe arpeggiate e fragorose tirate elettriche.
Non mancano neppure episodi di più facile presa come “Scattered Ashes” o “Breaking My Light”, che sono anche quelle più conosciute dal pubblico e che vedono la gente muoversi di più.
La terza cosa è che dal vivo non si può capire che cosa stia cantando Rachel ma che se la gente lo sapesse, forse le si avvicinerebbe di più, oppure rimarrebbe frastornata: c’è tutta la fragilità, la ferita dell’amore, la difficoltà dei rapporti, il non sentirsi adeguata, la sofferenza della perdita, nei suoi testi. Testi poetici, mai facilmente oggettivizzabili ma scuri, perennemente in bianco e nero, esattamente come i video realizzati da James Lockey, che illustrano alcuni brani del disco e che mostrano a volte una quotidianità prosastica ma non disillusa, a volte un surrealismo che vuole forse fungere da contrasto con le deprimenti visioni evocate.
Quarto e ultimo punto: l’assenza di Justin Lockey, non annunciata ufficialmente dalla band e di fatto neppure rilevata dal pubblico, non è stata poi così tragica. I motivi non si sanno anche se è lecito pensare che siano legati agli Editors (che in questo momento però non sono in tour). Ad ogni modo, Stuart Braithwaite è talmente magistrale e vario nel suo modo di suonare che davvero vien voglia di chiedersi che cosa avrebbe aggiunto una seconda chitarra. Rimane comunque, se non altro per dovere di cronaca, il dispiacere per non averli visti in azione al completo.
Sono nati quasi per caso ma hanno dimostrato che si può anche sfruttare il revival di un certo genere musicale (vedi lo Shoegaze, che sembra ormai prepotentemente tornato di moda) pur senza produrre qualcosa che sia per forza di cose retro.
I Minor Victories interpretano con sicurezza la ricetta del rock contemporaneo, sintetizzando le loro differenti anime in un prodotto totalmente a fuoco, che potrebbe addirittura indicare una possibile direzione futura.
Come i Merchandise di cui scrivevo qualche settimana fa, c’è un certo approccio alla tradizione che forse è quello di cui abbiamo bisogno ora.