Non ci sono rivelazioni sconcertanti nell’autobiografia di Bruce Springsteen intitolata Born to Run: il libro non narra storie di sesso e droga, di arresti e pestaggi, di camere d’albergo distrutte e chitarre sfasciate, di amanti perdute, e di sette figli avuti con mogli diverse. 

Tutto questo non c’è, perché non è “springsteeniano”. Del resto, se ci fosse stato, lo avremmo certamente saputo prima. Springsteen non è né Keith Richards né Johnny Cash. Per quel che riguarda la forma, poi, Born to run non è Il sogno di un hippie, le memorie oniriche (scomposte e sincopate) di Neil Young; e nemmeno un “personal essay” come Chronicles di Bob Dylan, che, libero nella forma, trova, nei cunicoli della mente geniale dell’autore di Like a Rolling Stone, i passaggi segreti che schiudono un’autobiografia rivoluzionaria, capace di rimettere in discussione il genere stesso autobiografico.     



Questa di Bruce Springsteen ha, invece, una forma classica e struttura diacronica: la scrittura è solida come una roccia, la “verità” risiede nei particolari, nello sguardo che l’autore posa sui dettagli. È un volume composto di immagini vivide: inquadrature, scene, sequenze. Come un film. Anzi, come la Bibbia! Non come i libri, quindi, ma come il prototipo di tutte le narrazioni. 



La sua Bibbia, ovviamente, fatta di capitoli e versetti, dove il verbo diventa carne. Chapter & Verse è, non a caso, il titolo del suo nuovo Greatest Hits uscito contemporaneamente al volume, e che, in qualche modo, rappresenta un “libretto per le istruzioni”, una “guida” alla lettura dell’autobiografia.

Capitoli e versetti: dunque, prosa e poesia. In altre parole, l’autobiografia è la versione in prosa delle sue canzoni; il canone springsteeniano dispiegato in forma narrativa, e “montato” con un découpage cinematografico all’americana, dove i protagonisti, però, non sono più Mary, Rosalita, Spanish Johnny, Frankie, Terry, Sandy e Johnny 99…; cioè, i personaggi delle sue canzoni, ma Bruce stesso, colui che a quei caratteri ha dato vita. La novità, quindi, è nel “punto di vista”. 



Il suo è un viaggio all’indietro, durante il quale si cerca di far luce sulle origini della sua creazione (umana e artistica). Dobbiamo fidarci della sua parola, del suo sguardo, non abbiamo scelta. Possiamo farlo, giacché, fin dalla prefazione, l’autore ci annuncia di essere «membro di quella categoria di personaggi che “mentono” al servizio della verità». Non facciamoci illusioni, sembra dirci Bruce, c’è sempre un po’ di menzogna in ogni presunta verità. 

Il volume si apre con un attacco degno delle sue migliori canzoni: «I come from a boardwalk town where almost everything is tinged with a bit of fraud. So am I» (“Provengo da una piccola città di mare, dove quasi tutto contiene un po’ di inganno. Anch’io”. Nda). È sempre l’autore che sceglie i pezzi della (sua) storia da raccontare, lasciandone inevitabilmente fuori degli altri: nell’operazione di selezione c’è il senso ultimo di quel “mentire al servizio della verità”. 

Nelle prime pagine, Springsteen descrive i luoghi, prima ancora degli esseri umani: la strada, la casa, la chiesa di Freehold, New Jersey; detta con precisione le coordinate spaziali, e lascia sospese quelle temporali. Perché da quei luoghi, in fondo, non si è mai allontanato, pur essendo “nato per correre”. 

Ecco spiegata anche l’inusuale, benché efficace, scelta stilistica di utilizzare il “presente storico” per far rivivere alcuni momenti del suo passato remoto: «È giovedì sera, la sera dell’immondizia. Siamo pronti a entrare in azione. Pigiati nella berlina anni Quaranta del nonno, stiamo per setacciare i mucchi di rifiuti che ingombrano tutti i marciapiedi della città. La prima tappa è Brinckerhoff Avenue, dove abitano i ricconi. Siamo a caccia di radio, di qualsiasi tipo e in qualsiasi condizione. Dopo averle recuperate dalla spazzatura, le gettiamo nel bagagliaio e le portiamo nell’officina del nonno, un cubicolo di legno non riscaldato di due metri per due. Inverno o estate che sia, qui accadono magie». 

Lentamente il racconto si espande: entrano in scena i nonni, la madre, il padre; la narrazione diventa corale quando c’è da fare il punto sulle sue origini miste. Un capitolo per “Gli Italiani”, uno per “Gli Irlandesi”. La madre (Adele Zerilli), il padre (Douglas Springsteen), e le rispettive grandi famiglie. Gioie e dolori. 

Di nuovo come nelle sue migliori canzoni, che, in ultima analisi, non fanno altro che raccontare drammi a ritmo di rock ‘n’ roll. L’apollineo (gli Italiani) e il dionisiaco (gli Irlandesi). Lui, Bruce, ha imparato presto a far convivere le due anime in un solo corpo, e a infilarle nel suo canzoniere. Gli Italiani «ti rimpinzavano fino a farti scoppiare, ti assordavano con canti e grida e ti costringevano a ballare fino all’alba»; dagli Irlandesi, invece, scrive Springsteen, «deriva gran parte della sventura che affligge la mia famiglia. (…) Non so dire da dove abbia avuto origine, ma il ramo irlandese della mia famiglia è flagellato da una grave forma di malattia mentale che sembra colpire a casaccio: un cugino, una zia, un figlio, una nonna e, purtroppo, mio papà».

La musica arriva presto a salvargli la vita, ma sono le icone prima ancora dei suoni del rock ‘n’ roll a rivelargli la potenza salvifica di quella rivoluzione in forma di note.

In sequenza: Elvis e poi i Beatles, i loro corpi, e dopo le loro canzoni irrompono in casa Springsteen passando per il tubo catodico della televisione, grazie al programma più popolare d’America a quei tempi: lo show di Ed Sullivan, «quel vecchio bastardo!». Beh, sì, anche questo va detto: Bruce scrive come mangia. La sua è una prosa talvolta “parlata”, dalla quale emergono i colori e i suoni dell’”uomo comune” del New Jersey (la traduzione italiana, non sempre all’altezza del compito, fatica, in alcuni passaggi, a renderla nella nostra lingua). 

Asbury Park, una delle grandi metafore della poetica di Springsteen, la sua città adottiva, il luogo dove tutto ebbe inizio alla fine degli anni Sessanta, è raccontata con toni malinconici: «Abitavo ad Asbury Park ormai da tre anni. L’avevo vista patire violente sommosse razziali e cominciare a spegnersi. (…) Qui scrissi 4th of July, Asbury Park (Sandy), un addio alla mia città adottiva e alla vita che vi conducevo prima di cominciare a fare dischi. Sandy era un collage di ragazze che avevo conosciuto sulla costa, mentre la passerella (“boardwalk”, nel testo originale. Nda) e la chiusura della città erano una metafora della fine di un amore estivo e dei cambiamenti che stavo sperimentando». Asbury Park, come periferia dell’anima, un amore mai spento: così vicina e così lontana alla Grande Mela, la città delle luci e del successo. 

Quest’ultimo, come tutti sanno, arriva con Born to Run, l’album che dà anche il titolo all’autobiografia. Ed è a questo punto delle memorie che emerge Big Man Clarence Clemons, il gigante buono al quale Springsteen dedica pagine commoventi. Più di un amico, più di un fratello. I due diventano una coppia di personaggi epici, il bianco e il nero, i Don Chisciotte e Sancio Panza della musica rock: «Prima del 1975, spesso Clarence manteneva un profilo elegantemente basso dietro il microfono, come un sassofonista da club. Una sera andai a dirgli che non bastava più. Potevamo usare la nostra presenza musicale e visiva per raccontare una storia alla quale le mie canzoni accennavano soltanto. Potevamo viverla».

Da lì in poi, la sua vita sarà un crescendo di emozioni, successi, dischi e concerti. Il ritmo della narrazione, però, ne risente un po’ proprio nei capitoli centrali. Si riscontrano perfino dei passaggi che parafrasano, stancamente, la prima famosa biografia su Springsteen: quella di Dave Marsh, intitolata anch’essa – guarda caso –  Born to Run

Decisamente sopra le righe, poi, appaiono le pagine dedicate a Patti “la rivoluzione rossa” (sua moglie), definita: «cantautrice grandiosa, una delle voci più incantevoli che abbia mai sentito, in gamba, tosta e fragile». Qui Bruce non mente per mettersi al servizio della verità. Mente per amore! 

Ma il Nostro sa riscattarsi presto, scoprendo le sue fragilità, le sue paure, la sua battaglia contro la depressione. Oppure regalandoci ricordi che, almeno a noi italiani, scaldano il cuore, come quello del concerto leggendario tenuto a San Siro nel giugno del 1985: «Per il nostro debutto in Italia, la mia seconda madrepatria, ci esibimmo a San Siro, a Milano. Percorrendo come gladiatori gli umidi e oscuri corridoi, sentimmo crescere il boato assordante di ottantamila italiani finché non sbucammo al sole del prato. Sembrava quasi che fossimo tornati dalle crociate con le teste dei nemici infilate sui manici delle chitarre (o che stessimo per finire in pasto ai leoni)… e non avevamo ancora cominciato! Quando attaccammo Born in the USA, la fine del mondo sembrava vicina: lo stadio vibrava e oscillava, e noi suonavamo come se ne andasse della nostra vita. Madonna!». In tutti questi anni, ce lo siamo sempre raccontati tra noi quel concerto. Avevamo solo il nostro punto di vista, però. Se quell’evento fosse un film, direi che avevamo la nostra “inquadratura” su Bruce, ma mancava la sua “inquadratura” corrispondente su di noi. Avevamo il “campo” senza il “controcampo”. Se quel concerto fosse un film – e forse lo è  – questa memoria emersa degli anni Ottanta completerebbe, dopo 31 anni, il più bel campo/controcampo della storia del cinema. 

Quel ricordo di una notte a Milano andrebbe inserito nel più ampio contesto di recupero della sua “italianità”, che emerge con forza dall’autobiografia, e non appare come una semplice riscoperta delle sue radici italiane. In questo libro di memorie Bruce rivendica con orgoglio la sua appartenenza culturale al nostro paese, e, infatti, scrive: «Noi italiani tiriamo dritto fino allo stremo delle forze, teniamo duro finché non cedono le ossa, non molliamo la presa finché i muscoli resistono». Quel “noi italiani” non è cosa di poco conto, detto da uno che da oltre tre decenni canta Born in the Usa

Infine, il padre: l’operaio, l’irlandese, il “nemico”! A lui Bruce dedica un’analisi profonda, toccante. Douglas Springsteen ne esce come uno straordinario anti-eroe (folle), contro il quale il songwriter americano ha combattuto per una vita intera, per arrendersi, solo ora, alle soglie dei 70 anni, all’evidenza di essere diventato più simile a lui di quanto mai potesse immaginare. Ed è un’analisi (allo specchio) impietosa, che parte dal corpo, dagli aspetti fisici. 

Il punto più alto del libro è, forse, la descrizione dettagliata, minuziosa del corpo del padre sul letto di morte, del cadavere, del momento della sepoltura e poi della rinascita di un “nuovo padre” che passa attraverso la descrizione di un sogno bellissimo che – rimettendo insieme l’apollineo e il dionisiaco, l’equilibrio e l’ebrezza -, spiega tutto, o quasi tutto, il suo canzoniere: «Una notte feci un sogno. Sto suonando, la serata è incandescente, e mio padre, morto da tempo, siede in silenzio fra il pubblico. Poi… sono in ginocchio vicino a lui, e per un attimo osserviamo insieme l’uomo scatenato sul palco che canta la vita degli operai come lui. Gli tocco l’avambraccio, quindi dico a mio padre, paralizzato dalla depressione per tanti anni: “Guarda, papà, guarda… quello là… sei tu… è così che ti vedo».