C’è un musicista italiano che tutti (o quasi) conoscono negli Usa. Frequenta i migliori palcoscenici nordamericani, viene chiamato dai più noti folksinger da New York alla California. L’artista in questione, Michele Gazich, ben si concede a questa chiamata ed offre il suo violino e la sua barba da Marc Chagal al pubblico e alle folksong.
Poi Gazich abbandona gli States e se ne torna a casa, toglie i panni del fiddler di lusso e diventa un esploratore: scava nel passato multietnico della sua famiglia, alterna domande sacrali a invettive sull’insensatezza dei centri commerciali, governa ritmi e violoncelli con maestria d’autore. E scrive così da parecchi anni canzoni di rara poetica bellezza, alcune delle quali entrano di diritto nel novero delle più grandi della recente produzione italiana, come nel caso di Hai mai sentito ardere il tuo cuore e Guerra Civile.
Così facendo – la storia si dipana sino ai nostri giorni – giunge un momento in cui, dopo molti bei dischi, Gazich azzecca il capolavoro, una di quelle cose destinate a rimanere a lungo: La Via del Sale (FonoBisanzio), il disco con cui rinasce nel nostro tempo il folk d’autore italiano. Oppure, che dir si voglia, la canzone etnica. Dove però l’etnia è sinonimo di mondo, non di piccola provincia. Ecco quindi, un disco di “arte per tutti”. Arte musicale, of course.
Dove è la musica italiana, ci si chiede da un po? E’ nascosta nelle pieghe televisive di Xfactor? Ecco: mentre qualcuno si domandava dove fosse finita la grande canzone, di colpo appare La Via del Sale, un lavoro prezioso ed autentico che, con le sue undici canzoni, dimostra (a sorpresa) che la musica italiana è viva proprio nelle sue radici. Non nelle sue evoluzioni o contaminazioni, ma proprio là sotto, dove va a scavare Michele Gazich, dove la terra della storia e della gente è grassa, concimata e fertile.
Se dischi come Creuza de Ma’ (De André) e La Pianta del Te (Fossati) hanno dimostrato l’ampiezza rigogliosa delle possibilità offerte della canzone italiana quando ritrova il suo tempo passato, allora Gazich dimostra di essere figlio legittimo di quella vena musicale. E ancora: i due cantautori genovesi avevano infilato le mani nel torrente ligure, nella vena del Tirreno, nelle miniere sarde e catalane, nel retroterra piemontese, nel basilico e nel prezzemolo, nel mirto e nel sapore del mare.
Rivolgendosi ad un altra terra e a differenti ispirazioni, Gazich (dopo aver raccontato terre e vagabondaggi che partivano da Bisanzio per arrivare ai Balcani, e da lì verso Vienna e Venezia) attraversa l’Italia dal Sud al Nord, scavallando gli Appennini, spingendosi poi verso la Germania ed approdando a Colonia, di cui si narrano distruzioni simboliche dell’epoca-Merkel.
Insomma: se c’è una “via” c’è anche un “viaggio”. E Gazich punta alla riscoperta di tappe e mete di una identità perduta, dove “via del sale” è un po’ come la Route66 degli States, sentiero perduto dentro alle nebbie di un tempo senza più chiari valori di riferimento. Le canzoni simbolo di questo viaggio sono la titletrack, entusiasmante e dolente nel suo incedere contrappuntato di pifferi e zampogne e poi Storia dell’uomo che vendette la sua ombra, dialogo impossibile tra una madre (che prende la voce di Rita Lilith Oberti, figura carismatica del punk italiano) e un figlio inafferrabile.
E poi c’è Collemaggio, che narra la desolazione in cui vive tutt’ora il centro de L’Aquila dopo il terremoto, oppure Barcellona, Sicilia, in cui l’omaggio a Bartolo Cattafi, poeta siciliano, vien fatto addirittura mettendo in canto siculo l’inizio del Vangelo di San Giovanni (“in principio era il Verbo….”). La storia paradossale dellaBiblioteca Sommersa, appare come narrazione sconsolata della distruzione dell’archivio storico di Colonia, un tesoro della cultura mondiale andato rovinato per errori di calcolo mentre si costruiva il tracciato della nuova metropolitana della città tedesca.
Cronaca e poesia, Vangeli e ispirazioni hiddish, temporali e incendi (come quello che distrusse il quartiere ebraico di Salonicco nell’Ottocento, evocato in Dia de Shabat), cronaca e percussioni, Elouard e Bach. Quanti sono i riferimenti che sbucano fuori dalle canzoni di Gazich? Tanti, troppi, accalcati in una continua rincorsa sonora e verbale, fame di verità e di riposo, ed anche inquieta ricerca di pace, come nei riferimenti a S.Giovanni della Croce, che è il vero protagonista non citato di Viaggio al Centro della Notte (“L’amore brucia e guida, l’amore non è mai casa, mi brucia e fa ch’io vada”).
E, da ultima, ecco la splendida Una lettera dalla barricata: una ballata classica, l’unica forse davvero american-oriented, canzone che si apre cantando “L’arte dopo Auschwitz, l’arte dopo Obama”, e fa intuire da subito che la “storia”, qui, è una provocazione per le anime. Perché la “storia” in questa potente prova di Gazich mette sempre qualcosa “in più” nelle canzoni: mette sale sui cibi e forse anche sulle ferite. Per avere più sapore. Ed anche affinché la realtà possa bruciare nelle viscere: perché non ci si possa mai assopire. Per evitare – come diceva il filosofo – che il sonno della ragione generi mostri.
La Via del Sale ha iniziato a srotolarsi e a lasciare tracce in giro per la penisola: Michele Gazich ha infatti appena lanciato il suo nuovo disco e sta per iniziare il suo tour (prima data: 8 ottobre, FolkClub, Torino). L’abbiamo rintracciato per proporgli di rispondere ad alcune domande. E abbiamo capito qualcosa di più del suo universo artistico:
Ascoltando questo tuo nuovo album si ha la sensazione di trovarsi di fronte a un lavoro fuori dal tempo. Un po’ come quando si è ascoltato per la prima volta Creuza de Ma’ di Fabrizio de Andrè. In un qualche modo Michele Gazich si sente figlio di quel disco così importante per la musica italiana?
Ovviamente questo è un paragone che incute un certo timore. Creuza de Ma’ è un disco che ho amato molto, che ha dato vita ad una scia bellissima di riscoperte e riletture della tradizione e delle sonorità mediterranee. Anche io come il grande Fabrizio ho vissuto la fascinazione del suono americano: ho frequentato tanti musicisti made in Usa, ho suonato, registrato e interpretato la varietà del suono nordamericano e sarebbe stato forse molto semplice per me mettere su disco un suono folk o country. Invece ho cercato da tempo di trovare una mia via molto personale, molto legata al luogo in cui vivo ed alla sua storia.
Come definiresti questo tuo nuovo prodotto discografico?
E’ il tentativo compiuto di riedificare una sorta di folk-rock italiano libero dalla matrice anglosassone. Un album in cui il sangue e la carne della musica siano qualcosa che ci appartiene sia nella memoria delle melodie che nella scelta degli strumenti utilizzati.
Per questo hai scelto di tirar fuori dall’armadio della memoria proprio alcuni strumenti decisamente made in Italy come pifferi e zampogne?
Esatto, proprio perché mi è sembrato giusto restituire alla nostra tradizione la sua parte di suono, cercando di ripristinare la dignità di strumenti che vediamo nelle case di campagna o sentiamo evocare nei racconti dei nonni.
Ritornare alle radici, certo, ma per quale motivo? Con quali contenuti? Insomma: cosa ti ha mosso nella realizzazione di questo album?
Il motivo francamente è stato il desiderio di portare un messaggio di rinascita attraverso parole e musica che appartenga alla mia terra: questo è stato l’approccio. Ha richiesto il suo tempo, un tempo giusto, forse anche molto lungo. Però alla fine dentro alle Vie del Sale c’è l’Italia degli Appennini e delle pianure, delle feste da ballo, delle differenti sonorità popolari, delle facce delle persone delle vallate e delle pianure. La sua realizzazione è stata una scelta artistica e insieme personale perché i due campi si toccano sempre. Son convinto che non ci possa essere separazione tra vita e arte, tra ragioni personali e motivi artistici. Così un po’ mi ha mosso la voglia di ritornare sulle mie radici ed un po’ ho scoperto che questa scelta era una percorso obbligato della mia traiettoria di uomo e artista. Diciamo anche che questo disco chiude una sorta di trilogia di ritorno a me stesso. Se riguardo oggi a Imperdonbile e Una storia di mare e di sangue vedo proprio un percorso di ritorno a casa, di riscoperta che oggi arriva a compimento.
Ma questo non sembra un disco “di compimento”, ma piuttosto di irrequietezza e ricerca…
Diciamo che è un disco sulle nostre radici, troppo spesso smarrite. Cercavo una metafora per l’Europa che era culla di civiltà e valori, e che oggi ha venduto le sue ricchezze allo zio d’America. Tutto il presente sembra essere in questo senso una “via del sale”: un luogo ed un percorso che avevano un grande significato andato però smarrito, una strada che oggi stenta a ritrovare la sua vera direzione.
Se questo è dunque un disco di ritorni e di smarrimenti, una delle canzoni più amare che vi appaiono è “La biblioteca sommersa”. Una canzone che parte da un fatto reale può essere metafora del nostro presente?
Qui si narra la storia purtroppo vera di una biblioteca storica – quella di Colonia – sprofondata nel sottosuolo di una grande città e invasa dalle acque di una falda sotterranea per incuria e incapacità. Una vicenda simbolica della nostra avidità e superficialità. Ho la sensazione che viviamo in una civiltà che predilige il trionfo dei soldi su ogni altro valore. Ed allora ho voluto ricreare la memoria di una città scomparsa sotto terra. Quello avvenuto a Colonia nel 2009 è stato un evento quasi biblico: mi ha fatto pensare al diluvio universale. Speriamo che l’uomo sappia imparare dai propri errori.
E poi c’è la canzone su cui hai voluto produrre un video, “Storia dell’uomo che vendette la sua ombra”. Sembra una clip girata da Werner Herzog…
E’ un dialogo madre-figlio ed in realtà sono due monologhi di persone che non riescono a parlarsi, che si pongono domande senza risposte. Ho voluto rappresentare la dissoluzione dei rapporti personali, ma anche la deflagrazione dell’Europa, che si incarna nella rottura del dialogo madre-figlio. E’ stato complesso scriverla, perché cercavo un linguaggio semplice e comprensibile per suggerire un dialogo che corre sul filo della perdizione. E qui il suono della zampogna da un contributo fantastico, senza aver nulla di pittoresco: preferirei definirlo lancinante ed inquietante.
Questa “via del sale” viene dopo la Via di Damasco del tuo precedente live. Spesso nelle tue canzoni, anche nei dischi precedenti a questo, emerge una notevole necessità di “santità”: come mai?
Perché fa parte del mio lessico. Mi è venuto spontaneo intessere questi elementi di religiosità e di elementi biblici. Nella prima canzone di questo disco c’è una chiara citazione del Giobbe dell’Antico Testamento: veniamo al mondo sacri e nudi. Personalmente ho il bisogno di ripensarci nudi, senza orpelli, senza tutte le sovrastrutture con cui ci rapportiamo agli altri e al mondo.
In Imperdonabile c’era La canzone di chi non sa tornare: anche quello era uno sprazzo religioso non indifferente…
Quella era la canzone di chi non sa tornare a un Dio che lo cerca. Parlavo di Dio che prova ad approcciare un uomo che continua a rifiutarlo.
Nell’ultimo anno hai trascorso più tempo tra gli Usa e l’Europa che in Italia. Poi il Marocco con Eric Andersen a suonare per le celebrazioni della beat generation. E poi progetti, nuovi dischi, nuovi artisti. La tua è dinamicità creativa o altro?
Sto seguendo diversi progetti perché in realtà mi piace non chiudermi in un’unica visione dell’arte e della musica. Potrei così dire che ora sto subendo il fascino di lavorare con altri artisti, scoprendo il mondo della produzione. Sto lavorando con Lara Molino, un’artista che ha scritto bellissime canzoni con suo padre, poeta: sono canzoni in lingua abruzzese su cui stiamo lavorando, con testi e musiche molto profondi e autentici. E’ un progetto affascinante a cui ho associato in questi mesi un altro progetto inedito dalle sonorità folk-blues. Poi con Mary Gauthier stiamo sviluppando un progetto molto delicato, provando a incidere canzoni scritte con marines americani reduci da territori di operazioni militari. E’ un’opera molto intensa e bisogna aver la forza di affrontarla fino in fondo. Ma la prima operazione adesso è comunque portare in tour la Via del Sale. Prima in una dimensione italiana e poi, chissà, anche europea.
La canzone italiana oggi: che senso ha? Riusciamo a fissarla e a definirla nel suo momento presente?
È sicuramente in una fase in cui la figura del cantautore è andata in crisi. Direi quindi che mi pare in un momento di complessa rifondazione. Ed è sempre difficile mentre stai scalando la montagna vedere cosa c’è in cima, però le cose belle non mancano. In questo tempo, ad esempio, ho scoperto l’ultimo disco di Salvo Ruolo,Canciari Patruni ‘Un E’ L’Bittà. Lui è un autore italiano capace di raccontare il Risorgimento dal punto di vista siciliano, con una potentissima ricostruzione linguistica e senza nessuna concessione al folklore banale.
Tu sei prima di tutto un violinista cresciuto nella tradizione classica, che passa senza traumi da Miles Davis a John Prine, da Bach a Christy Moore. Cosa ascolti in queste settimane?
Sono stato colpito dall’ultimo lavoro di Nick Cave, Skeleton Tree, un prodotto così profondo e doloroso da lasciare ammutoliti. Aggiungo da ultimo un’autrice svedese, Sofia Carlson, una folksinger che è una vera sorpresa nel panorama contemporaneo della musica di qualità.
In questo breve elenco non ci sono titoli di musica americana…
E’ solo un caso. Comunque ho un rapporto contraddittorio con l’America. Da un lato sono segnato da personaggi immensi come Bob Dylan e Leonard Cohen. Dall’altro sono un po’ sorpreso dalla capacità degli Usa di rappresentare anche tutte le superficialità della nostra epoca. In compenso la canzone che sta anticipando l’uscita del nuovo album di Cohen, You Want it Darker, mi sembra davvero potente, tra cori ebraici e ispirazioni dell’ortodossia russa…
E si ritorna alla sacralità… Sembra di intuire in Michele Gazich una polarità interessante: da un lato ironia, dall’altro il misticismo di S.Giovanni della Croce, quello che nel tuo ultimo album ispira una canzone come Al fondo della notte. Ma dove batte davvero il cuore di Michele Gazich?
Diciamo così: mi sembra che la vita sia un percorrere le strade al buio in attesa e nell’auspicio di trovare una luce. Nell’attesa di vedere nel buio la fiamma di una candela.