Alla fine siamo tutti “uomini sottili” che hanno cantato la loro ballata: “qualcosa sta succedendo qui, ma tu non sai che cosa”. Come tanti mister Jones, abbiamo cercato ogni tipo di spiegazione. Abbiamo acclamato, oppure contestato il conferimento a Bob Dylan del premio Nobel della letteratura. Siamo rimasti in attesa delle sue parole ed abbiamo cercato d’interpretare il suo silenzio. 



Qualcuno l’ha apprezzato, altri non l’hanno compreso. Molti l’hanno contestato. “E’ scortese ed arrogante”, hanno scritto. “Se non gli interessa, che lo dica, così lo diamo a un altro!”, hanno affermato alcuni. Perché, in fondo, un premio ha una valenza se il vincitore si dimostra interessato ad esso. In mancanza di questo, possiamo pensare che la ricchezza di ciò che quell’artista ha saputo esprimere possa essere in qualche modo invalidata. Perciò passi pure, andiamo avanti, e vediamo se, con un altro, avremo maggior fortuna. E’ giusto così, non è vero? O forse no?



Certamente la strada del rock non è lastricata di buona educazione. Basta mettere su un disco dei Ramones o dei Clash, per rendersene conto. Ma è davvero così importante? Non sarà che il rock’n’roll è una forma di espressione senza fronzoli, cruda, talvolta scomoda e inopportuna, non fosse altro perché ha saputo esprimere così bene, negli ultimi cinquant’anni, il disagio esistenziale dell’uomo e, in particolare, del mondo giovanile?

Nella sua autobiografia “Born To Run”, Bruce Springsteen scrive che la musica e i viaggi furono per anni i suoi compagni migliori, anche dopo che lo spettro della depressione cominciò ad abbattersi sulla sua vita. Essi erano i suoi “fedeli compagni”, la “medicina migliore”: la strada, la musica, i chilometri, da percorrere incessantemente, sino al confine dell’orizzonte, sino alla prossima curva, sino alla ricerca di un significato dell’esistenza che le consentisse di reggersi in piedi. 



“Una canzone rock è capace di contenere tutto il mondo”, scriveva Greil Marcus nel suo libro Mystery Train e lo stesso Springsteen confidava di avere “imparato di più da un disco di tre minuti” di quanto non avesse “mai imparato a scuola”. Tutto questo per dire – è stato scritto anche questo – che nei momenti più alti la musica rock ha “dato voce alla ferita dell’uomo che cerca di afferrare il mistero”.

Pochi autori sono stati in grado di arrampicarsi sino a quelle vette – Bob Dylan, Leonard Cohen, lo stesso Springsteen – ma tutti i musicisti sinceri hanno fatto i conti con quel desiderio di verità, felicità e bellezza, che albergava spesso in cuori dotati di una sensibilità fuori dal comune. “C’è del buono in ognuno di noi ed io sinceramente amo troppo la gente”, aveva scritto Kurt Cobain, nell’ultima lettera lasciata sul luogo del suo suicidio, aggiungendo: “l’amo così tanto da sentirmi troppo triste, sensibile, incompreso”. Per questo, di fronte ad un desiderio disatteso, aveva deciso che “è meglio bruciarsi, che spegnersi lentamente”.

Quando, nel corso della sua breve esibizione durante il Congresso Eucaristico a Bologna, il 27 settembre 1997, Bob Dylan si presentò davanti a Giovanni Paolo II, sembrò davvero poco educato. Stava procedendo verso il palco dove stava seduto il Papa indossando un enorme cappello da cowboy, e solo un avvertimento all’ultimo momento di Tony Garnier – il fido bassista della sua band – fece sì che egli si rendesse conto che forse era meglio arrivare davanti al pontefice col capo scoperto. Dylan si avvicinò lentamente, quasi inciampò sui gradini, rimase immobile davanti al Papa, poi dopo qualche istante e parole rimaste sconosciute, tornò al suo posto. Non disse mai nulla di quei momenti; solo, di fronte alle continue richieste, giunse ad ammettere che quello era stato “semplicemente” il momento più alto della sua carriera. 

Quante volte Dylan è stato accusato di essere maleducato col suo pubblico, di non rivolgergli mai neppure una parola sul palco.  “In un concerto di Dylan – scrive Alessandro Carrera – c’è nell’aria qualcosa che non ha niente a che fare con lo statuto della rock star. Dylan è la prova vivente che l’arte non può essere solo il risultato di un freddo processo di comunicazione che procede da A a B. Egli sta dimostrando da una vita, ma ancora di più dal 1988, quando ha iniziato il “Tour  Infinito”, che l’arte non è un fatto, l’arte è un’azione, una prassi, una militanza, e soprattutto una conversazione. Dylan non conversa personalmente con il pubblico, non fa l’entertainer. Dylan conversa con le sue canzoni, le ascolta e vi risponde, a distanza di anni e addirittura di decenni. Con questo suo incessante conversare con se stesso, Dylan porta la conversazione tra il pubblico, gliela dona senza preoccuparsi di come il dono verrà accolto, accende promesse di significato che altri dovranno decifrare, poi fa i bagagli e passa al prossimo concerto”. Ecco, il punto è soprattutto questo, perché non è che a Dylan non importi di salire sul palco e di trovare là sotto il suo pubblico, la sua gente: gliene importa, eccome, invece: “a salire su un palco rischi la vita ogni volta”, ebbe a dire un giorno.

“Sono felice che le mie canzoni ricevano questi onori”, ha dichiarato Dylan in occasione del premio “MusiCares Person Of The Year”, conferitogli a Los Angeles nel febbraio del 2015, aggiungendo: “sapete, non sono arrivate fin qui da sole. E’ stata una lunga strada e c’è voluto molto impegno. Queste mie canzoni sono come le storie di misteri, quel genere di storie che Shakespeare sentiva quand’era ragazzo. Penso che si possa ricostruire quello che ho fatto partendo da così lontano. Erano ai margini allora, e penso siano ai margini ancora adesso. Suonano come se stessero viaggiando su un terreno difficile”.

E adesso, dopo giorni e giorni di silenzio, Bob Dylan ha parlato. Ha detto che era rimasto “senza parole” di fronte alla notizia del Nobel. Il premio della letteratura che non trova altro da dire se non che “apprezza davvero tanto un tale onore”. “Entri nella stanza, la matita in mano, vedi un uomo nudo e dici “chi è costui?”. 

Sono i primi versi di Ballad Of A Thin Man. Sì, siamo davvero tutti dei mister Jones, facciamo fatica a capire cosa accade, anche Dylan. Ma nelle note di copertina di Bringing It All Back Home, nel lontano 1965, Bob aveva già scritto tutto quel che c’è da dire sulle sue canzoni: “una canzone è qualcosa che è in grado di camminare da sola / io sono uno scrittore di canzoni / una poesia è un uomo nudo…qualcuno dice che sono un poeta”. Ora l’hanno detto anche a Stoccolma, e non c’è davvero più niente da aggiungere. 

Ci basta proseguire lungo la nostra strada, insieme a quelle canzoni, e senza pretendere che qualcuno, nemmeno Bob Dylan, ce le spieghi. Ma continuando ad andare a caccia, nella nostra vita, di ciò che conta: quel desiderio di verità, felicità e bellezza che è scritto dentro il nostro cuore.