Da Robert De Niro, peraltro con una interpretazione di tale intensità come non ne faceva da almeno trent’anni visti gli scialbi filmetti da panettone natalizio a cui si dedica da tempo, che giurava di prendere a pugni in faccia Donald Trump se lo avesse incontrato per strada, a Stevie Wonder con una dichiarazione piuttosto offensiva nei confronti dei disabili (“Votare per Donald Trump è come chiedere a me di guidare”) tutto il mondo di Hollywood e della musica era fermamente schierato con Hillary Clinton. Fino al tocco di classe di Madonna, che aveva offerto sesso orale a chiunque avesse votato Clinton.



Si sa che le star di Hollywood e del mondo della musica sono da sempre legate al Partito democratico. Questa volta però ce n’è stata almeno una che ha avuto coraggio da vendere, l’attrice Susan Sarandon: “La paura di Donald Trump non è sufficiente per me per sostenere Hillary Clinton, con tutta la sua storia di corruzione”. Chapeu, come si dice. Già, perché anche se non lo sa mai nessuno qua in Europa, non è vero che alle elezioni americane ci sono solo due candidati. Quest’anno ce n’erano altri due, quella per cui ha votato la Sarandon, Jill Stein, leader dei Verdi, e Gary Johnson del Partito Libertariano. In tutto hanno preso lo 0,6% a livello nazionale (per motivi misteriosi nello stato dello Utah hanno toccato il 25,9%).



Se altri grandi del mondo dello spettacolo si fossero mossi così, forse queste percentuali sarebbero state più alte e sarebbe stata l’occasione per mandare finalmente un segnale forte a quei due partiti, democratico e repubblicano, che hanno perso ormai qualunque contenuto ideale li avesse animati alla loro nascita. 

Oppure i vip non contano assolutamente nulla. Sono élite intorno alla quale girano milioni di dollari, ma non toccano la vita dell’allevatore di vacche del North Dakota, il contadino dell’Oklahoma o l’operaio dell’Indiana. Il Partito democratico americano a cui appartengono questi personaggi non sa più parlare alla working class ormai da decenni.



Nel 2004 ci fu un dispiegamento di forze da parte dei musicisti rock a sostegno di John Kerry che sembrava un esercito. Un tour addirittura, con i più grandi nomi della scena americana, da Springsteen a Neil Young, dai Rem ai Pearl Jam. Non riuscirono a far vincere il candidato da loro sostenuto e neppure a spostare un voto, perché come si dice, “parlavano ai convertiti”. Insomma, darsi una pacca sulle spalle e dirsi, figata che Neil Young e Bruce Springsteen la pensano come noi. Probabilmente quella dimostrazione di forza servì più a cementare  l’ego degli artisti che ad altro.

Di questa campagna elettorale 2016 alla fine resta l’immagine sconsolata di Bruce Springsteen che si presenta al comizio finale di Hillary Clinton a Filadelfia. A differenza dell’entusiasmo con cui aveva sostenuto Obama, questa volta Springsteen era stato molto defilato, a parte qualche insulto assortito rivolto a Trump quando qualche intervistatore gli chiedeva un parere. Solo l’ultimo giorno si è sentito in dovere di mostrare il suo supporto alla Clinton, ma era evidente a tutti, a partire dal modo con cui cantava, che era fortemente a disagio. Qualcosa che “doveva” fare, ma non si “sentiva” di fare. 

Nella sua testa c’era probabilmente più Bernie Sanders (che se fosse stato candidato del Partito democratico avrebbe vinto alla stragrande contro Trump) che Hillary. E in un discorsetto altrettanto forzato ha preso una cantonata imperdonabile: “(Hillary Clinton) chiede un’America che partecipi al benessere del nostro pianeta – sia nel mondo degli affari che della scienza globale”. Hillary Clinton, la maggiore responsabile per le decine di migliaia di morti in Siria, in Iraq, in Libia, con la sua politica estera sconsiderata, affaristica, ideologica e totalmente ignorante delle realtà locali e dei popoli che ci vivono.  “Hillary vede un’America in cui il problema della distribuzione del reddito deve essere in prima linea della nostra conversazione nazionale, dove i progressi che abbiamo fatto nel ridurre il nostro tasso di disoccupazione non sono sufficiente e dobbiamo fare meglio” ha aggiunto Springsteen. Viene da chiedersi che realtà vive il Boss. Per quale motivo uno delle molte decine di milioni di americani il cui tenore di vita è crollato per colpa di Wall Street a cui la Clinton è legata a doppio filo, doveva votare Hillary e non Trump? Perché è sessista? Non basta. 

La vittoria di Trump, per quanto non ci piaccia, segna la morte del politically correct incarnata da questa élite, del fatto che certe idee, rappresentate da certi personaggi, siano per forza di cose “migliori” delle altre. Migliori per che cosa? Perché rispondono a certi standard che non sono oggettivi ma fissati convenzionalmente dalla leadership che detiene il potere. Lo ha dimostrato in modo chiarissimo la stessa Hillary Clinton quando durante un comizio ha definito i sostenitori di Trump “un branco di miserabili”. E’ razzismo figlio di una concezione di superiorità (“noi siamo i buoni, tutti gli altri degli ignoranti miserabili”) tipico dei liberal americani, una élite di privilegiati che guarda la società americana dall’alto in basso, convinta di doverla educare a una verità da loro solo posseduta.

Niente paura però: ci aspettano adesso quattro anni di grandi dischi rock di protesta. I Green Day hanno già annunciato “American Idiot” parte seconda…