Ultimo giro di giostra per questa incarnazione degli Swans. Michael Gira aveva resuscitato la sua creatura nel 2010, ben dodici anni dopo l’epitaffio live intitolato emblematicamente “Swans Are Dead”. Adesso, dopo quattro dischi dalla durata mostruosa, uno più bello dell’altro, nel quale sono stati riversati tutti i demoni, le ossessioni ma anche le speranze e le gioie del loro creatore, gli Swans sono pronti a dire nuovamente basta.
“Adoro il gruppo – ha dichiarato recentemente a Francesco Vignani di Rumore – questo periodo è stato il più felice della mia vita a livello musicale. Detto ciò, credo che l’eccessiva familiarità che si è venuta a creare fra noi, la conoscenza perfetta delle nostre potenzialità, rischi di farci diventare prevedibili sul lungo periodo. Quindi, per quanto la cosa sia dolorosa, è ora di mettere un punto e andare altrove”.
Dove, ancora non è dato saperlo. Per il momento, godiamoci quest’ultimo tour, che ha fatto tappa in Italia per tre date. Noi siamo stati a Bologna, nella suggestiva cornice del Teatro Manzoni. Può sembrare strano, se ci si pensa, che un gruppo come il loro, disturbante e “rumoroso” fino all’eccesso, vada ad esibirsi in un luogo che dovrebbe essere riservato a ben altre sonorità.
Eppure, c’è qualcosa in questo collettivo, che li fa apparire quasi nati per un luogo del genere. Due anni fa li vidi a Barcellona, nel celebre “Auditori” del Parc del Forum, e fu un’esperienza quasi mistica.
Ragion per cui, non mi sono stupito così tanto della decisione di DNA Concerti, di prenotare questo luogo per lo show bolognese.
In apertura c’è Anna Von Hausswolff, giovane cantante e compositrice svedese (classe 1986) che ha all’attivo tre dischi e un lavoro di ricerca sonora molto suggestivo anche se per nulla facile da fruire.
Nei quaranta minuti a sua disposizione suona tre canzoni, e già questo dovrebbe farci capire di che cosa stiamo parlando. Inutile classificare la sua musica, che potrebbe essere definita come “di avanguardia” se proprio dovessimo semplificare. Distorsioni, pulsazioni ritmiche, una voce usata come un mantra ossessivo, atmosfere molto dilatate e giocate sulla pedissequa ripetizione dei temi portanti; tutti ingredienti di cui la band di Gira si fa portatrice da sempre, ragion per cui lo show della Hausswolff ne costituisce un gradito antipasto.
Tempo mezz’oretta e gli Swans sono tra noi. Non è facile descrivere che cosa sia questa band dal vivo. Le loro canzoni, anche nella versione in studio, nascono da improvvisazioni e dal vivo questa componente viene ancora più accentuata. Ne risultano esecuzioni lunghissime (anche più di mezz’ora), durante le quali, come avviene generalmente nel Post Rock ma anche nella New Wave, le strutture tematiche vengono ripetute fino all’eccesso, spesso variando le dinamiche e la partecipazione dei vari strumenti ma comunque sempre utilizzando l’ossessività come criterio privilegiato.
I volumi sono altissimi, sproporzionati per un ambiente chiuso e raccolto come il Manzoni ma la band vuole così. Dopo la prima sezione di musica, che dura una quarantina di minuti buona e che ha trasformato il teatro in un inferno claustrofobico, Michael Gira riesce contemporaneamente a mangiarsi vivo un tecnico per una spia malfunzionante e a chiamare tutti a raccolta sotto il palco.
La risposta dei presenti è immediata: almeno in platea, la gente lascia le proprie poltrone e si accalca di fronte allo stage. Chi non riesce a farlo, si accontenta di rimanere in piedi a dimenarsi al ritmo della musica. Saltano tutti gli schemi, dunque: le maschere del teatro vanno un po’ nel panico ma alla fine si arrendono all’evidenza: questa sera vedranno qualcosa di completamente nuovo, probabilmente.
La musica degli Swans è violenta, disturbante, a tratti malsana. Ma è anche tremendamente bella. Innanzitutto perché non si riduce a mero assalto sonoro. C’è una ricercatezza, nelle strutture comunque semplici delle canzoni, che lascia sbalorditi se si ascolta con attenzione e ci si lascia coinvolgere. Michael Gira aveva descritto il nuovo lavoro “The Glowing Man” (una monumentale opera doppia per un totale di due ore di durata), come l’equivalente musicale di “Ben Hur” e “Ran” di Kurosawa (anche se forse era ironico, stando ad alcune dichiarazioni rilasciate in seguito). Dal vivo è forse meno evidente, visto che sul palco sono solamente in sei e non ci sono dunque le mille sovraincisioni della versione in studio.
Nonostante tutto, è impossibile non rimanere affascinanti dalle atmosfere magniloquenti che vengono evocate sul palco.
Perché gli Swans dal vivo sono una macchina da guerra incredibilmente oliata. Il fulcro di tutto questo è il batterista Phil Puleo, che non è solo potentissimo ma è anche incredibilmente bravo a variare le dinamiche, in modo che ogni brano, anche nei momenti di “loop”, sia sempre diversificato al suo interno e viva degli indispensabili crescendo che fungono da passaggio tra una sezione e l’altra.
Notevole anche il lavoro del bassista Christopher Pravdica, che in certi momenti è talmente fragoroso da superare il muro delle chitarre. Chitarre che sono suonate da Gira e dal suo compagno di vecchia data Norman Westberg, unico superstite della prima formazione del gruppo. Un personaggio davvero curioso, perfetto contraltare del frontman: mentre questi si fa trasportare dalla musica e sembra spesso in trance, l’altro è invece fermo e compassato, ma ogni volta che il suo plettro tocca le corde, si scatena l’inferno.
Le aperture melodiche così indispensabili a contrastare questo muro sonoro, sono date dall’ottimo tastierista Paul Wallfisch, salito a bordo appositamente per questo tour. Suo perfetto comprimario, Christoph Hahn alla Pedal Steel, anche lui indispensabile coi suoi fraseggi per rendere il sound a tratti meno monolitico.
Il risultato di tutto questo è l’impressione di una potenza ma anche di una precisione senza pari. Assalto frontale, certo, ma anche esecuzione raffinata. Il tutto, con dei suoni al limite della perfezione, che il livello assurdo dei volumi non rovina per niente.
È un lungo viaggio di due ore e un quarto, quello che la band americana ci fa vivere. Un viaggio che ha il suo centro emotivo e musicale nella doppietta “Cloud of Forgetting/Cloud of Unknowing”, la suite di apertura del nuovo lavoro; lenta e ossessiva, parte come chiusa in se stessa ma trova a poco a poco la via per la liberazione, con un Gira salmodiante vicino al canto gregoriano.
“Di recente ho letto molti libri sul Buddhismo Zen come altri scritti da mistici cattolici, in particolare un testo meraviglioso scritto da un monaco inglese del quattordicesimo secolo. Il titolo è proprio “The Cloud of Unknowing”: è una sorta di libretto in cui questo religioso insegna ai suoi correligionari il metodo migliore per fondersi con Dio…”. Non è una novità, perché chi conosce bene l’artista californiano sa che questa attenzione alla componente spirituale della vita non gli è mai mancata.
Il concerto si chiude coi trenta e passa minuti di “The Glowing Man”, al termine dei quali, congedandosi dal pubblico adorante, dopo aver presentato i suoi compagni d’avventura saluta tutti con un eloquente “Pray for America and for the world”, ben adatto ai tempi che stiamo vivendo. Dopodiché, tempo un quarto d’ora, si presenta al banchetto del merchandising a firmare autografi, stringere mani e ricevere saluti e complimenti.
È proprio in questo momento che ci si accorge di quanto è peculiare, un personaggio così; lo vedi nel contrasto apparentemente insanabile che c’è tra l’oscuro e carismatico figuro vestito di nero a metà tra un direttore d’orchestra e un sacerdote, e il tranquillo signore sessantenne col colbacco in testa che elargisce sorrisi a piene mani.
Qualunque cosa succeda adesso agli Swans, non sarà così importante, finché uno come Michael Gira sarà tra noi.