November 11 – giorno d’uscita annunciato da mesi – fa rima con September 11, e si sa che New York è una città che Sting ha sempre amato. Nelle ricche note di copertina del nuovo disco l’artista vuole subito raccontare che ha sempre amato quella intersection, quell’incrocio della zona di NY chiamata Hell’s Kitchen, dove questo lavoro è nato ed è stato registrato.
E deve essere stato veramente un lavoro d’equipe se Sting ha deciso di dividere la paternità dei pezzi con il fido chitarrista con lui da anni, Dominic Miller, ma anche con il resto della band, l’altro chitarrista Lyle Workman e i due batteristi che si dividono le tracce in cui sono coinvolti, Vinnie Colaiuta e Josh Freese.
I temi sono molti, sia musicalmente parlando che dal punto di vista testuale, e sia che parli di una storia d’amore finita o dei cambiamenti climatici (nella scanzonata One Fine Day, debitrice dell’andatura del basso a All This Time), Sting riesce ad essere convincente. Evidentemente attraverso il viaggio introspettivo di The Last Ship ha ritrovato la verve e la scioltezza dell’autore di gran belle canzoni.
Il blocco che – lui stesso lo ha dichiarato prima dell’uscita di The Last Ship – lo ha attanagliato per una intera decade deve averlo provato non poco, visto che proprio a questo tema è dedicato il primo singolo e brano d’apertura del disco I Can’t Stop Thinking About You, robusto e vigoroso straight rock che parla proprio del foglio bianco come un campo di neve, e dell’inventiva come un cacciatore che deve stanare la preda.
Sempre nelle note parla addirittura di ossessione, quando i cani da caccia dell’immaginazione sono poco efficaci. Ancora due parole su questo primo singolo: inizialmente aveva dato a chi scrive l’impressione di un compitino ben fatto, quasi arrivando alla domanda – tutto qui? Non è così, qualche ascolto e qualche dose di attenzione dopo fanno invece trapelare una grande maestria nella scrittura. Non che si debba cadere nello strutturalismo, una canzone piace anche a pelle, direttamente; ma analizzandone melodia, passaggi ed accordi, la superficie si incrina ed emergono piacevoli sorprese. Non c’è spazio e non è la sede questa, ma mi piacerebbe approfondire l’analisi e pubblicare qualcosa al riguardo. In ogni caso, paragonato a molti pezzi rock-pop attuali, Sting vince già a mani basse.
Ma occorre andare avanti: 50,000, titolo della seconda traccia, sono le persone che Sting immagina, mentre cantano ad un concerto una delle sue canzoni. Questa esperienza può provocare un sentimento di potere, financo di tracotanza, oppure invece di gratitudine e umiltà piena di rispetto. Musicalmente immaginatevi un incedere alla Born-in-the-USA, che però muta subito in una strofa sussurrata, quasi recitata su un’andatura che deve molto armonicamente all’atmosfera di Invisible Sun di Police-iana memoria.
Un altro interessante esperimento può essere sicuramente, per chi segue Sting non dall’altroieri, andarsi a cercare riferimenti e ambientazioni che citano lavori passati, cosa che l’artista ha sempre amato fare senza però mai auto-copiarsi veramente ed inserendo sempre una zampata di novità e di distacco dal modello.
Due canzoni parlano della fine di una relazione, in maniera – dice sempre l’autore nelle note – non direttamente autobiografica, pur avendo sperimentato situazioni simili nel lontano passato. Una è la traccia 3,Down, Down, Down, davvero intrigante nell’accompagnamento e nella melodia ispida e in levare, che si distende nel ritornello. Dispiace abbandonare le canzoni dopo commenti così brevi perché c’è sempre la convinzione che serva una analisi più profonda, ma tant’è.
Di One Fine Day abbiamo già accennato qualcosa in apertura, forse la canzone più pop del disco, ma non per questo meno riuscita, in cui Sting parla a modo suo dei cambiamenti del clima, auspicando maggiore rispetto ed augurando un domani migliore. Ambientazione scarna e quasi western per Pretty Young Soldier, che nel ritornello riporta alle atmosfere di Soul Cages, lavoro del 1991 che aveva in parte ispirato anche The Last Ship.
È la volta di due canzoni diametralmente opposte dal punto di vista musicale, ma accomunate dal fatto di essere descritte dall’autore come road songs, canzoni di viaggio. Acida ed elettrica Petrol Head, che richiama il cantato di Shadows In The Rain, non nella versione reggae dei Police, ma in quella del suo primo album solista del 1985. Acustica e misteriosa invece è Heading South On The Great North Road. Potente e molto americana la prima, fascinosa ed accompagnata solo da una chitarra acustica, finemente britannica la seconda. Non so se la strada che va verso sud dal nord della Gran Bretagna sia quella che percorse Gordon Matthew Sumner (vero nome di Sting) per andare via da casa e cercare fortuna e successo altrove; fatto sta che quando va su temi autobiografici Sting estrae delle perle assolute, come questa canzone ruvida, aspra come l’incertezza di non sapere se veramente la promessa di una nuova vita espressa dal testo troverà un compimento oppure no. L’incertezza tonale e il contesto armonico di un folk austero fanno di questa canzone un quadro incredibilmente vivido, tanto grezzo quanto affascinante.
Il brano successivo – secondo brano tralasciato prima e dedicato alla fine di una relazione – è forse il più riuscito dell’intero lavoro. If You Can’t Love Me, se non puoi amarmi così, allora devi lasciarmi. Un ipnotico e reiterato arpeggio si appoggia su un ritmo irregolare in 7, rendendo perfettamente il fluttuare dei sentimenti. Le armonie del pezzo si basano su una scala discendente (scala=7 note) che parte dal settimo grado della scala stessa per poi scendere.
Ad ogni gradino di discesa corrisponde una frase del testo della strofa, strutturata pertanto anch’essa su un periodo diviso in sette. Il testo, incalzante e fitto di parole, si appoggia su una melodia cantata quasi in modo frettoloso, che contrasta con lo sviluppo armonico, ma si distende poi nel breve ritornello, che sorprendentemente ruba un ottavo al tempo dispari. Canzone insolita ed avvolgente, appare misteriosa e forse un po’ ostica al primo ascolto, ma quando cattura, avvince e non ti molla più.
Le ultime due canzoni (nella versione standard del CD) sono dedicate, diciamo così, a temi sociali. La traccia 9, Inshallah è un accorato appello, quasi una preghiera perché cessi il dramma dei profughi di guerra e dei loro viaggi costellati di morti. Non una soluzione politica, dice l’autore, improponibile da trattare in una canzone, ma un tentativo di empatia e compassione. La conclusiva The Empty Chair è invece un brano composto su un testo scritto dal cantautore newyorkese Josh Ralph e dedicato al giornalista James Foley, ucciso in Siria nel 2014. Anch’essa affidata solo a voce e chitarre acustiche, è una ballata che degnamente conclude un lavoro variegato, per nulla di maniera e di grande spessore.
La versione deluxe dell’album contiene due brani suonati con la band tex-mex The Last Bandoleros, versioni acustiche del primo singolo di questo album e del primo singolo che Sting realizzò con i Police, Next To You. Fra i due, una versione di Inshallah (accreditata come Berlin Sessions) arricchita da percussioni e strumenti di origine mediorientale.
Sento già pervenire delle possibili obiezioni, anzi un po’ erano venute anche a me: ne sintetizzo un paio.
Obiezione 1: con tutti i soldi che ha Sting può permettersi di fare dischi come e quando vuole. Certo, ma l’inventiva c’è e sforna canzoni che colpiscono e rimangono.
Obiezione 2: questo antipatico signorotto inglese ci prende tutti in giro fingendo affondi autobiografici, che in realtà sono anch’essi scritti solo per vendere. Controtesi 2: cominciate a scrivere una canzone come August Wind (nel precedente lavoro) o Heading South On The Great North Road e poi ne riparliamo.
In conclusione Gordon Sumner, a 65 anni appena compiuti pare abbia ancora diverse cose da dire. E le dice bene.