Negli anni 70 quel bootleg, dalla qualità sonora più che ottima, era qualcosa di cui andare orgogliosi. Ci permise di mettere le mani, anzi le orecchie, su quel tour di cui si fantasticava, quando Bob Dylan, accompagnato dai musicisti che poi diedero vita alla altrettanto straordinaria avventura di The Band, incendiò il mondo cambiando per sempre la storia della musica rock.
Ci permise di scoprire il suono di quella rivoluzione e di diventarne partecipi e testimoni anche se con una decina di anni di ritardo. Era il 1966 e in Inghilterra quella serie di concerti furono aspramente contestati da alcuni spettatori, pare (si legga al proposito il bel libro “Like the Night (revisited): Bob Dylan and the Road to the Manchester Free Trade Hall” di CP Lee che ricostruisce con abbandonanti testimonianze la storia di quel tour) incaricati direttamente da gruppi politici di sinistra di boicottare il Dylan “pop” e traditore della contestazione, vendutosi alla “musica commerciale”. Questi gruppi politici erano così ancorati a una visione ideologica da non capire come una chitarra elettrica fosse un’arma di rivoluzione ben più potente del menestrello folk che cantava Blowin’ in the Wind. Ci avrebbero pensato i giovani di tutto il mondo a capirne la forza sovversiva.
Quel bootleg si intitolava erroneamente “Royal Albert Hall” riferendosi alla location di Londra dove Dylan si era esibito il 26 maggio, ma in realtà conteneva il concerto di una decina di giorni prima tenutosi alla Free Trade Hall di Manchester. La diversità del luogo non sarebbe stata così importante, se non che la Free Trade Hall era il luogo dove si svolse il momento più drammatico, e allo stesso tempo con il senno di poi più epico, di quello scontro che andava in atto ogni sera tra l’artista e il pubblico. Quando cioè uno spettatore gli grida “Giuda!” sottolineato da uno scrosciante applauso. Un altro spettatore urla: “I’m never listening to you again, ever!” (Non verrò mai più ad ascoltarti!), Dylan gli risponde: “I don’t believe you” (Non ti credo!). Poi una pausa e Dylan che risponde “You’re a liar” (Sei un bugiardo). Alla fine, esasperato, Dylan si gira verso i suoi musicisti dicendo loro di “suonare fottutamente forte” (Play it fuckin’ loud!). Quella che segue è la più rovente, apocalittica e devastante versione di Like a Rolling Stone.
A stabilire la giusta location dell’evento fu il Volume 4 della Bootleg Series pubblicato nel 1998, ironicamente intitolato “The “Royal Albert Hall” Concert”. Il nostro vecchio bootleg, che tra l’altro conteneva solo la porzione elettrica dello show e che negli anni aveva raggiunto quotazioni assai elevate nel mercato dei collezionisti, poteva essere rimesso negli scaffali per sempre.
A chiudere adesso il cerchio arriva adesso “The Real Royal Albert Hall”, il concerto di Londra del 26 maggio e così i giochi sono chiusi. Il doppio cd che esce il 25 novembre è un estratto da un monumentale cofanetto di 36 cd, “The 1966 Live Recordings”, che contiene per intero quasi tutti gli show di quel tour che dalle Hawaii all’Australia attraversò gli States fino a sbarcare in Irlanda, Francia, Svezia e Inghilterra. Dietro la pubblicazione del cofanetto ci sono motivazioni di copyright.
Esattamente come l’anno scorso era stato pubblicato un altro monumentale cofanetto relativo a tutte le registrazioni in studio di Dylan del 1965: la legge sul diritto d’autore prevede infatti che dopo 50 anni artista e casa discografica non abbiano più il possesso di quanto registrato. Per rientrarne in possesso basta pubblicare ufficialmente tutto. Aspettiamoci, se non cambierà la legge, altre alluvioni analoghe nei prossimi anni.
Inutile dire che il box per quanto si trovi a prezzi non poi così altissimi, anche circa cento dollari, è un acquisto buono solo per collezionisti, feticisti e storici della musica, anche perché le scalette dei concerti con pochissime eccezioni sono identiche. Anche il doppio “Royal Albert Hall” non presenta alcuna differenza dal concerto di Manchester dal punto di vista delle canzoni eseguite, ma è comunque un acquisto che, con il precedente, permette di avere una sufficiente visione di quell’eccitante tour.
Non finisce qui. Dieci anni fa accadde qualcosa di altrettanto memorabile per quanto riguarda la storia di questi due concerti. Per la prima volta fu possibile assistere, e non solo sentire, al drammatico scontro di cui prima. A farci toccare con mano il Sacro Graal del rock, perché nessuno sapeva che esistessero filmati di quella sera, fu Martin Scorsese con il suo straordinario documentario “No Direction Home” dedicato a Bob Dylan. Fu così che scoprimmo che il regista D.A. Pennebaker che aveva filmato tutto quel tour (parzialmente pubblicato nel film, presto ritirato dalle sale, “Eat the Document”) aveva ripreso anche quella scena: impagabile vedere Dylan, dopo aver attaccato Like a Rolling Stone, mandare con un gesto del braccio pieno di raffinato disprezzo a quel paese i contestatori.
In occasione del decimo anniversario quel documentario di Scorsese viene ripubblicato, per la prima volta anche su blu-ray (pare che la qualità delle immagini sia fantastica) e dvd. Anche qui niente per cui aprire il portafoglio a meno che non abbiate ancora l’edizione di dieci anni fa: vengono promesse due ore e mezza di immagini inedite e spezzoni di intervista a Dylan non pubblicate in precedenza. Il materiale inedito si limita a parti di interviste inedite a Liam Clancy (nel frattempo morto), Dave Van Ronk (scomparso anche lui), Joan Baez e Maria Muldaur, più una intervista del tutto inedita a Martin Scorsese. Il cofanetto include tre litografie e un libretto che contiene articoli e interviste dell’epoca. Clancy, Baez e Muldaur eseguono anche versioni improvvisate rispettivamente di Girl from North Country, Love is just a Four Letter Word e Lord Protect my Child e in più lo stesso fa anche Mavis Staples con Hard Rain. C’è in realtà qualcosa di inedito anche per Dylan, “Apothecary Scene”, la divertente scena filmata per strada con un Dylan spettacolare che improvvisa improbabili versi poetici, autentico giullare shakesperiano imbottito di anfetamina che dà esercizio di teatro di strada.
Si conclude così la storia dell’anno che sconvolse il mondo del rock, il 1966, protagonista assoluto Bob Dylan. Lui sarebbe sparito dalle scene per ben otto anni, a leccarsi le ferite di quei momenti, le contestazioni sarebbero state dimenticate e la storia della musica moderna avrebbe subito una accelerazioni fenomenale, impossibile a immaginarsi se Dylan, in quell’anno, non avesse fatto quello che aveva fatto.
Cinquant’anni dopo quei giorni, quel piccolo ribelle è diventato un premio Nobel. Ma a modo suo, come ha sempre vissuto. In una canzone contenuto nel doppio album uscito in quel 1966, “Blonde on Blonde”, probabilmente il più straordinario disco della storia, Absolutely Sweet Marie, Dylan lascia cadere con la sua apparente noncuranza zen un verso che oggi appare chiaro sia il codice esistenziale a cui ha dedicato la sua vita: “Per vivere fuori della legge devi essere onesto”. Quella frattura tra l’artista e un mondo che per sua naturale predisposizione vuole che l’artista stesso rientri nelle sue categorie pena anche l’insulto (lo si vede in questi giorni nelle parole di giornali come il New York Times, che non hanno mai perdonato il suo tirarsi fuori dalle logiche “liberal” o nell’ignoranza e nella malignità arrogante di un Gramellini su La Stampa) consumatasi alla Free Trade Hall di Manchester e prima ancora nei fischi a Newport del luglio 65 non si è mai ricomposta.
Se il rock ha mai avuto la funzione di offrire una alternativa all’establishment, alle istituzioni accademiche sganciate dalla realtà, alla corruzione della politica, agli intellettuali da salotto o alla famiglia intesa come morale oppressiva, alle ideologie partitiche che soffocano le libertà a destra come a sinistra, Dylan ha incarnato questa possibilità rendendo la sua vita corrispondente a questa alternativa. “Fuori dalla legge”, ma onestamente: una apparente contraddizione che invece sbaraglia tanta ipocrisia in cui anche il rock ha finito per affossarsi.
Non è il caso di Dylan: “Sono onorato, ma ho altri impegni” ha detto chiarendo che non sarà sul palco dell’Accademia di Stoccolma. Vi ho insegnato a essere liberi, non lo avete capito. Io vivo in un mondo e in un tempo immemorabile, a volte vi concedo di vedermi e toccarmi, ma io ho altri impegni: vivere. D’altro canto, chi non è impegnato a rinascere ogni giorno e ogni istante, è destinato a morire. Quanti premi Nobel sono morti e stati dimenticati il giorno dopo?
Di lui il suo biografo Robert Shelton coniò l’epitaffio definitivo: “Ha già vissuto cinque vite in una. Forse seguirà la via di Rimbaud, avendo già espresso più parole di rivolta di quelle che il mondo fosse pronto ad accogliere, oppure quella di Yeats, continuando a cercare e a trovare per raggiungere una creatività ancora maggiore in un’età avanzata. Conoscendo Dylan, fin dove il mistero del genio ce lo permette, con ogni probabilità farà a modo suo. Come sempre”
Dylan ha altri impegni: combattere per restare vivo e non finire, come predisse sul suo unico romanzo, “Tarantola” (che doveva uscire guarda caso in quel 1966) “demolito dal garbo viennese” (sostituitelo con svedese e andrà benissimo):
“qui giace bob dylan
demolito dal garbo viennese –
che adesso sosterrà di averlo inventato
ora la gente in gamba può
scrivere Fughe su di lui
& Cupido può dare un calcio alla sua lampada al cherosene
bob dylan – ucciso da un rifiutato Edipo
che cambiò
bandiera
per indagare su un fantasma
& scoprì che
anche il fantasma
era qualcosa di più di una persona”