Si può discutere di quando esattamente siano tornati, oppure sul fatto se se ne siano mai effettivamente andati; fatto sta che gli anni ’80, nella storia della musica odierna, hanno ancora un grande peso. Sono numerose le band, anche esordienti, che si ispirano a sonorità che molti potrebbero adesso definire pacchiane ma che certamente non suonavano così all’epoca e neppure lo fanno oggi, evidentemente, visto i consensi che puntualmente riescono a raggranellare. 



Ad agosto abbiamo avuto l’esordio dei Blossoms, che giocava con la nostalgia in maniera impeccabile; poco dopo è toccato ad un’altra band britannica, i White Lies di Harry McVeigh, dimostrare che probabilmente le idee migliori sono ancora quelle che andavano trent’anni fa. 

Di “Friends”, quarto album dei londinesi, avevo già detto qualche settimana fa, eviterò di ripetermi. Resta che il synth pop pesantemente ottantiano, a metà tra i Simple Minds e gli Europe più pacchiani di “The Final Countdown” e “Out of This World”, non ha mancato di sorprendere i fan e gli addetti ai lavori che avevano celebrato un esordio come “To Lose My Life”, largamente influenzato dal Post Punk e dalla Wave più oscura; un tentativo (molto ben riuscito) di rincorrere la formula già adottata con successo da band come Editors e Interpol. 



Al Fabrique, l’elegante club milanese che ormai da un paio d’anni pare aver sostituito l’Alcatraz come venue per i concerti di band di media grandezza, durante la settimana si inizia piuttosto tardi. Ci vuole la serata in discoteca per farci andare via più presto del solito ma oggi non è sabato sera e non ce la caveremo così a buon mercato. Fortuna che gli organizzatori hanno pensato bene di inserire in cartellone un’altra band di supporto, rispetto ai già previsti Ramona Flowers, così che poco dopo le 20 possiamo già ingannare il tempo ascoltando qualcosa. 

Per la verità la sedicente singer che risponde al nome di Julia non si fa apprezzare più di tanto. Accompagnata da una chitarra acustica e da un basso, e aiutata massicciamente da basi preregistrate, il suo è un pop innocuo e monotono, in bilico tra una brutta copia di Madonna e una versione paillettes di Brandi Carlile o Amy Mac Donald. Canzoni scontate, insipide, suonate anche con poco tiro (forse anche per la presenza della batteria elettronica), così che, passata la mezz’ora a sua disposizione, siamo certi che nessuno dei presenti se la ricorderà. 



Tocca adesso ai Ramona Flowers, vero e proprio gruppo di supporto di questo tour. Anche loro inglesi, ma di Bristol, hanno da poco pubblicato il loro nuovo “Part Time Spies” e già dalle prime note del loro set si capisce come mai i White Lies li hanno voluti assieme a loro nel tour di questo nuovo corso: il sound è anch’esso profondamente ottantiano, debitore addirittura a band come Duran Duran o Spandau Ballet (la voce del cantante Steve Bird è in effetti piuttosto simile a quella di Tony Hadley). Suoni cristallini e potenti, impatto bombastico e una prova vocale di grande qualità, non possono tuttavia da sole ovviare ad un repertorio un po’ troppo scontato e non certo memorabile; buoni spunti, per carità (la conclusiva “Run Like Lola” non ci è sembrata male) ma nulla che sembri davvero destinato a restare. 

Lo show degli headliner inizia nella maniera più logica possibile: salgono sul palco con semplicità, senza nessuna intro di sottofondo, e attaccano “Take It Out On Me”, straordinario brano d’apertura del nuovo disco, che col suo ritornello da cantare a squarciagola chiarisce subito che cosa abbiano voluto fare i White Lies oggi. 

A ruota arriva una doppietta stratosferica, costituita da “There Goes Our Love Again”, dal precedente “Big TV” e “To Lose My Life”, title track del primo, indimenticato album. 

La resa sonora è ottima, la chitarra, suonata da Mc Veigh, è comprensibilmente più bassa delle tastiere, che questa sera devono fare la parte del leone. 

Il pubblico, molto più numeroso rispetto all’affluenza che ci si sarebbe potuta attendere, risponde bene anche se, come sempre più spesso accade di questi tempi, l’ossessione di filmare tutto col telefonino sostituisce l’impulso di scatenarsi e ballare che certi brani dovrebbero suscitare. 

Setlist equilibrata, coi nuovi brani che si ritagliano un peso considerevole e che in questo frangente rendono ancora di più che nella versione in studio. Episodi come “Morning in L.A.”, “Is My Love Enough” o la ballad strappalacrime “I Don’t Wanna Feel It All”, dimostrano tutto il loro potenziale e sono la testimonianza che i White Lies hanno saputo evolversi anche nel songwriting, andando a scrivere quelli che forse sono i loro brani migliori di sempre. 

Per il resto, gli estratti da “Big TV” (come la title track suonata come primo bis o l’immancabile “Getting Even”) sono la dimostrazione che, seppur declinato in chiave più oscura, il sound che il gruppo aveva tre anni fa poteva già lasciar presagire quello che sarebbe successo con “Friends”. 

È evidente comunque che sia “To Lose My Life” il lavoro più amato dal pubblico. La risposta sui nuovi pezzi è calda e sembra proprio che la maggior parte dei presenti già li conosca, ma è con canzoni del calibro di “Unfinished Business”, “The Price of Love” (ripescata dopo almeno sette anni che non veniva suonata) e soprattutto “Farewell To the Playground” che il Fabrique letteralmente esplode. 

D’altronde lo hanno detto anche loro, che è un lavoro a cui sono ancora molto affezionati, contrariamente al successivo “Ritual”, che non a caso risulterà il più penalizzato in scaletta. 

Non è uno show lungo (un’ora e un quarto al massimo) ma è tirato fino allo spasimo, con i quattro che suonano potenti, precisi e compatti, tenendo costantemente alto il ritmo in tutti i brani, guidati da quel motore inarrestabile che è il bassista Charles Cave. L’unico piccolo inconveniente è rappresentato ad un Mc Veigh a tratti vocalmente affaticato, in difficoltà sulle note più alte. Ma a parte questo, è una performance di ottimo livello, che ha probabilmente il suo apice assoluto nell’esecuzione di “Death”, in chiusura di set regolare; qui si raggiunge la massima potenza, il pubblico esplode, la band si lancia in un crescendo da brividi e forse abbiamo visto tutto quel che c’era da vedere. 

I bis durano lo spazio di tre brani e affidano il congedo definitivo a “Bigger Than Us”, il singolo del secondo disco che, a detta della stessa band, è stato determinante, col successo che ha ricevuto, a spingerli a continuare con la loro musica. 

E hanno preso la decisione giusta, sembrerebbe. Ovunque vorranno portare il loro sound in futuro, siamo certi che i White Lies, con le potenzialità che stanno dimostrando, non potranno che fare bene. Per noi invece, è l’ennesima conferma che non si esce vivi dagli anni ’80, come cantava una band italiana fin troppo nota…