Cinquant’anni dopo gli esordi, eccoli ancora on the road. Erano i giorni di Woodstock, mentre i Kentucky Headhunters – allora ragazzini di belle speranze, con il nome di battaglia Itchy Brothers – esordivano nei locali della loro terra, lo stato americano del bourbon e del bluegrass. Sono trascorsi i decenni, la band ha inciso dodici dischi che gli sono valsi un Grammy Award nel 1990 per Pickin’ On Nashville e una montagna di riconoscimenti dall’industria del country e del southern rock, tra i quali svetta il vendutissimo Rave On (1993). 



Ed oggi è uscito sul mercato mondiale il loro nuovo cd, On Safari (Plowboy Records) appena presentato a Nashville in un tripudio di ritmo e bella musica. 

La copertina del disco ironicamente rappresenta le teste dei quattro Headhunters come trofeo di una battuta di caccia, ma nonostante questa citazione mortifera e selvaggia, i “cacciatori di teste del Kentucky” sono in forma smagliante, alla faccia del capello bianco e dell’età media. Greg Martin (chitarre), i fratelli Richard Young (chitarre e voce) e Doug Young (batteria) e Doug Phelps (basso e voce) rimangono – come ha scritto la testata di riferimento dell’industria musicale nordamericana, Billboard – “la più consistente e duratura combriccola di Southern Rock del pianeta”, a confermare non tanto l’età, quanto la capacità di continuare a sfornare tour e dischi nella antica forma, quella più autentica, contagiosa e piacevole, del rock sudista. 



Nel nuovo disco, un prodotto che suona elettrizzante come negli anni ’70 e ’80, splendono dodici purissimi pezzi di southern rock con la lentissima Crazy Jim, l’abrasiva Deep South Blues Again e la ballatona God Loves a Rolling Stone ad affermarsi come titoli migliori, insieme al purissimo rock’n’roll di Jukebox Full of Blues e Big Time. Abbiamo avuto l’occasione di intervistare Greg Martin – chitarrista che negli Usa ha fama e reputazione immensi – per farci raccontare la nascita di quest’ultimo lavoro degli Headhunters. Occasione che non ci siamo lasciati sfuggire.



Buon giorno, mister Greg Martin: perché questo titolo per il nuovo lavoro dei Kentucky Headhunters, “On Safari”? E inoltre: perché quell’immagine ironica, di voi quattro come vittime di un “safari al contrario”, che vi fa passare da cacciatori a vittime di una battuta di caccia…. 

E’ stato Richard Young ad arrivare con questo titolo e l’abbiamo scelto perché ci rappresenta bene e con una buona dose di ironia, perché siamo spesso in tour, come un “headhunter” che è sempre in giro per una battuta di caccia. Se penso solo agli ultimi mesi: siamo stati prima in Scandinavia, poi in giro per l’Inghilterra e poi ancora su e giù per gli States, e mi viene da dire che passiamo più tempo in autobus che a casa. L’immagine della copertina invece è stata disegnata da un artista per un concerto di qualche anno fa ed abbiamo pensato che era molto divertente da proporre: noi che siamo i cacciatori di teste del Kentucky, una volta tanto – in effetti – siamo finiti cacciati.

Nella cover del cd voi siete vittime. Dopo 50 anni di vita musicale, vi sentite  “vittime del rock’n’roll”?

No, anzi: siamo vittime della country music!

Ritieni che il country sia la vostra influenza più importante?

Noi siamo a tutti gli effetti una rock band che ha trovato il suo successo nel mercato del country. E’ stata una sorta di miscela benedetta. Noi siamo gente di campagna, ragazzi cresciuti nella country music. L’area dove viviamo e la musica che in Kentucky si ascolta è una forte influenza. Le nostre radici sono blues e rock, gli elementi di country tradizionale e gli elementi bluegrass hanno fatto il nostro suono differente e in un certo senso così specifico e personale.

Quale gestazione ha avuto questo disco, che viene a soli due anni dal precedente? Di solito voi incidete con molta più calma…

Abbiamo iniziato a realizzarlo nel 2013, ma ci siamo fermati per lavorare ad un altro progetto, che sono le tracce che sono poi diventate il precedente album, Meet me in bluesland. Le canzoni di quel disco sono state registrate nel 2003 inseme al grande Johnnie Johnson, pianista leggendario che purtroppo si è spento nel 2005. Lo abbiamo fatto per un debito di riconoscenza verso di lui, un musicista che ha lavorato a lungo con Chuck Berry e che ha suonato con tutti i più grandi rocker e bluesman. Adoro quel disco e per noi Johnny era uno di famiglia, come fosse uno zio. E’ stato il musicista da cui abbiamo più imparato a tirare fuori il feeling più profondo da ognuno di noi, sia singolarmente che come band. Così finito il disco di tributo a Johnnie ci siamo ritrovati a lavorare su On safari.

Lavorate insieme da circa cinque decenni: puoi dirci come nasce un vostro disco?

Le nostre canzoni nascono sempre in una collaborazione. Ognuno di noi scrive a casa sua e poi le canzoni migliori si limano e si creano nella loro forma finale con tutta la band. Per questo nuovo lavoro siamo andati in studio – al David Barrick Studio di Glasgow in Kentucky – in aprile, abbiamo ascoltato le demo fatte da ognuno e poi abbiamo rifinito tutto in studio. Siamo andati in sala di registrazione ogni volta che riuscivamo anche perché siamo in tour senza interruzione. 

Tra i brani del disco, Crazy Jim emerge per la sua intensità: una slow ballad che sarebbe piaciuta anche a Ronnie Van Zandt e a Duane Allman. Cosa c’è dietro questa canzone?

E’ una storia vera. Crazy Jim era una persona reale, molto nota nella nostra zona. Lo chiamavamo “the rock man”. Una persona vera, autentica. C’era chi lo amava e chi no. Ora è scomparso e gli abbiamo dedicato questo ricordo.   

Le vostre canzoni vengono spesso da fatti reali, da persone esistenti? 

Direi sempre. Tu non puoi scrivere su cose che non conosci. Qualcuno a Nashville lo fa, crea canzoni su cose di cui non ha esperienza: è l’industria del country miliardario che usa questo metodo. Noi siamo fatti diversamente. 

Un altro pezzo notevole del nuovo dico è God Loves a Rolling Stone

Questa è una ballad classica, puro country-rock. Richard l’ha scritta molti anni fa e finalmente siamo riusciti ad inciderla, dopo averla rimandata molte volte. E’ un semplice messaggio: Dio ama tutti i suoi figli, non importa chi siano e da dove vengano. 

Sentendo i vostri album si ha la sensazione che l’autenticità sia la vostra caratteristica. Dopo tanti anni: come si fa a rimanere autentici , tra mille concerti e con un bel po’ di fama sulle spalle?

Noi non ci siamo mai trasferiti dalla nostra terra, abitiamo ancora dove siamo nati e dove abbiamo iniziato a fare rock. Il South Central Kentucky è un posto unico. Gente autentica, rapporti molto semplici diretti, bluegrass, country, blues, gospel e rock qui vanno tutti insieme. Forse l’autenticità che si sente nella nostra musica dipende anche da questo ed ha a che fare con le tue radici, con il tuo stile di vita e con le tue frequentazioni.

La vostra band è formata da gente che si conosce e si frequenta da parecchi anni: l’amicizia è un componente segreto dei KH?

In effetti sì. Siamo molto legati personalmente e la stessa cosa si può dire delle nostre famiglie Abbiamo anche avuto alti e bassi, ma sono cose che capitano. Noi ci vogliamo bene e questo è un motivo di coesione. Non so come funzioni per gli altri, ma per noi è certo così.

Come band avete suonato e collaborato con tanti interpreti del grande rock. Quali sono gli artisti che vi sono più rimasti nel cuore? 

Sicuramente aver aperto nel ’91 i concerti di Bob Dylan è stato un grande onore, indimenticabile. Poi personalmente sono molto legato ai tanti concerti fatti con Brian Setzer e Ronnie Montrose.

Quello di Montrose non è un nome che si sente spesso: grande e dimenticato?

Ronnie era un grande amico, musicista davvero imbattibile. Stava per produrre un mio disco solista e sono stato onoratissimo per aver potuto collaborare con lui. Quando si è tolto la vita è stato un momento davvero triste per me come per tanti. Forse lui è stato il mio chitarrista favorito. Aveva un fuoco interiore pazzesco. E’ uno dei musicisti che più hanno influenzato il mio stile insieme ad lista di altri grandi che va da Jimi Hendrix a Duane Allman, da BB King a Jeff Beck, da Chet Atkins a Peter Green, da Jimmy Page a Eric Clapton. 
E’ possibile anche identificare le grandi influenze per i Kentucky Headhunters? 

Le nostre più grandi influenze sono state Lynyrd Skynyrd e Beatles, Rolling Stones e Hydra, Byrds e Allman Brothers. E non dimentichiamo i Credence Clearwater Revival. Ma c’è da dire che noi abbiamo ascoltato e suonato davvero con molte band. Ricordo serate passate con la Marshall Tucker Band di Toy Caldwell, come anche gli show con i Double Trouble di Stevie Ray Vaughan o con Paul Barrere e i Little Feat. E’ difficile fare un elenco completo delle persone e dei musicisti che Dio ha messo sulla nostra strada.

Una curiosità: cosa fate “fuori dall’orario di lavoro”? Insomma cosa c’è fuori dalla vita delle rockstar?

Nulla di bizzarro: Richard Young lavora con altri musicisti, scrive e produce molto. Doug Phelps è ospite su molti progetti. Fred Young, invece, sta dietro alla sua campagna: adora la vita da agricoltore. Infatti è un esperto assoluto in fatto di macchine agricole e trattori.

E Greg Martin cosa fa nel tempo libero, tra un concerto e una registrazione?

La mia priorità è la mia famiglia. Passo il tempo a casa oppure in radio, visto che ho uno show radiofonico settimanale che mi diverte. E poi suono con amici quando il tempo me lo permette, soprattutto con Jimmy Hall dei Wet Willie e con il Greg Martin Group.  Credo che l’anno prossimo proverò ad incidere un altro disco di blues con influenze country. Ho in animo di coinvolgere amici come Vince Gill e Steve Wariner. Dipende anche da quante date faremo con gli Headhunters…

Ed allora terminiamo annunciando i programmi per l’anno nuovo dei Kentucky Headhunters?

La band continuerà il suo tour in giro per gli States, poi ancora Europa e un po’ di date in Inghilterra nel 2017. Ma abbiamo programmato anche tanta vita in famiglia: abbiamo bisogno di ricaricarci fisicamente e spiritualmente.