“Nella Musica Ribelle io c’ho comunque creduto”: ci credevamo un po’ tutti, da Anna che ha 18 anni che cercava qualcosa di più di “quelle strofe languide di tutti quei cantanti con le facce da bambini e i loro cuori infranti” a Marco “che di dischi fa collezione e conosce a memoria ogni nuova formazione”. Ieri sera al Teatro Dal Verme di Milano esaurito in ogni ordine di posti da settimane c’erano Anna, Marco e tutti noi che 40 anni fa credevamo in quella musica ribelle “che ti entra nelle ossa e ti vibra nella pelle e ti dice di mollare le menate e di metterti a lottare”.



C’erano loro soprattutto, quegli ex ragazzi meravigliosi guidati da Eugenio Finardi: lui scriveva le canzoni, ha raccontato, poi tutti insieme creavamo musica nella più totale libertà. Musica come nessuno in Italia aveva mai fatto e nessuno ha più saputo fare. Quando ad esempio sono saliti sul palco gli Area  qualcuno dal pubblico ha gridato: “Dove siete stati in questi 40 anni?”. Già, perché c’erano mancati. Tutti quanti. Quarant’anni dopo sembra che per questi musicisti straordinari non ci sia più stato posto per loro in quel mondo imbelle da talent show idioti, ma per una sera ce li siamo goduti di nuovo (anche se non si capiva bene cosa ci facesse Elio sul palco, mentre Faso al basso ha dato prova della sua solita classe).



Per una sera ci siamo però ritrovati, a leccarci le ferite magari, nonostante tra il pubblico ci fosse ancora qualcuno di quelli che a quei tempi non avevano capito niente e oggi ancora di meno, quando uno spettatore ha urlato a Finardi di suonare le sue canzoni “senza tutto quel casino di rumore rock”. Eugenio lo ha guardato perplesso: “Per fare musica ribelle ci vuole questo suono che fa rumore” gli ha detto. C’era da chiedersi se quello spettatore fosse rimasto a Newport 65 quando Dylan venne fischiato dai puristi di sinistra perché imbracciava una chitarra elettrica, o fosse uno di quelli, come ha ricordato Finardi, che negli anni 70 “ci tiravano le pietre sul palco perché facevamo rock”. Quelli che ci hanno fatto perdere una stagione di musica tirando le molotov sul palco a Lou Reed. Ma va bene così, in fondo ci stava ieri sera anche un personaggio così, a ricordarci che il sogno e l’utopia non sono stati fermati “dalla polizia”, ma dalla nostra stessa pochezza.



Mancavano tre personaggi enormi però, che tanto hanno segnato la musica ribelle: il bassista Stefano Cerri, scomparso da diversi anni, e l’altro bassista, l’americano Hugh Bullen che suona proprio nell’incisione di Musica ribelle.

“Lo avevo invitato a venire qui” ha detto Finardi aprendo la serata “ma lui mi ha detto che da anni aveva dato la sua vita a Cristo e avrebbe potuto cantare solo musica gospel. Qualche giorno fa è morto improvvisamente di tumore e ho capito cosa intendeva dicendo che la sua vita apparteneva a Cristo”. In modo commovente gli ha dedicato il primo brano della serata, il gospel Amazing Grace cantato da solo a cappella.

Mancava infine il tessitore elettrico di tutte quelle canzoni, Alberto Camerini (“Aveva un impegno in America”), il genio zappiano della chitarra elettrica italiana.

Poi è cominciata la musica ribelle. Alla sua band in cui spiccava il chitarrista Giovanni Maggiore, abilissimo a ricreare le complicate trame soniche di Camerini e l’eccellente tastierista Paolo Gambino, si sono aggiunti di volta in volta “gli ospiti”, roba da paura. Lucio Violino Fabbri, in forma fisica smagliante, violino e chitarra strepitosi oggi come allora; Mark Harris, “l’americano che parla in dialetto sardo”, piano elettrico degno di Herbie Hancock; Ares Tavolazzi, bassista supremo, per intendersi non avrebbe sfigurato con Jaco Pastorius; l’immenso Walter Calloni (“Però che roba suonare di nuovo con Walter Calloni dietro di me”), miglior batterista italiano di sempre, anche lui spuntato fuori da chissà dove; Lucio Bardi alla chitarra (“Gli facevamo da baby sitter aveva 12 anni; un pomeriggio lo lasciammo due ore in studio da solo e quando siamo tornati era diventato Eric Clapton”); Patrizio Fariselli, altra colonna portante degli Area; Claudio Pascoli – eterno jolly di tutta la musica italiana di vaglia dal jazz la cantautorato – al sax (da soli hanno eseguito il lungo strumentale jazz progressive Quasar che compariva nel secondo disco di Finardi dando lezione di classe impeccabile); Mauro Spina altro batterista formidabile (“Una sera a Padova qualcuno del pubblico ci sparò tre colpi di pistola, lui scappò dal palco nascondendosi dietro ai piatti della batteria”).

Le canzoni? Tutte, suonate come se 40 anni fa fosse ieri: sarabande rock-jazz ad altissima tensione elettrica come Zerbo, funk rock potentissimo come Diesel; festa rock popolare con Saluteremo il signor padrone; poesia acustica dolcissima come Oggi ho imparato a volare e La canzone dell’acqua, con ben impressa la visione immaginifica di David Crosby nella voce e nelle note; il latin rock di Cuba; la poesia di Non è nel cuore; il manifesto di una vita di Sulla Strada; il noise rock di Scimmia. E tanto altro ancora, passando ovviamente per La radio, Musica ribelle e concludendo tutti sul palco per Extraterrestre.

Nessuno ha saputo cantare “gioia e rivoluzione”, ma soprattutto il desiderio del cuore di felicità che una generazione, molto più che un “movimento”, aveva nel cuore come ha fatto Eugenio Finardi. Ci ha raccontati come uno di noi perché era uno di noi: “è normale che ci si sia rotti i coglioni di dibattiti e riunioni” perché il nostro cuore, il suo cuore, desiderava di più, come è naturale. 

E’ bello quando qualcuno “sa dirti” meglio di come tu riesci a fare, è una consolazione e al tempo stesso un senso di comunione che non abbiamo più sentito, musicalmente parlando, da nessun altro, “ognuno perso nel suo viaggio personale”. Anche gli errori storici, come quello di Giai Phong, eseguita anche questa, che facevamo nell’entusiasmo ideologico che ci contraddistingueva in quegli anni, ma in fondo lo avevamo capito “che Cuba forse non è il paradiso”.

Nell’affollatissimo camerino dove si aggirano altri ex ragazzi di 40 anni fa, ad esempio Franco Mussida della Pfm o il fotografo rock numero uno Guido Harari, Finardi sedeva in un angolo come una sorta di Budda, come un Babbo Natale con un sorriso stampato sul viso che non spariva mai concedendosi a tutti per una stretta di mano, una foto, un abbraccio. Quando è toccato al sottoscritto, non mi è venuto altro da dirgli se non questo: “Sei un uomo buono, grazie per la compagnia che ci hai fatto”. Fuori del teatro, “dentro ai manifesti o scritte sopra i muri”, non ci sono più le parole di 40 anni fa.  Non importa. Una volta che hai sentito la musica ribelle, ti resterà per sempre “nelle ossa e nella pelle” e ti dirà sempre  “di uscire, di cambiare, di mollare le menate e di metterti a lottare”.

La musica italiana ha bisogno di questi “ragazzi”: speriamo non spariscano per altri 40 anni.