Quando ero giovane, gli Oasis non li potevo vedere. “Wonderwall” quand’ero al liceo era una delle canzoni più ascoltate assieme a “Always” dei Bon Jovi, che era uscita non molto tempo prima. Ma se quest’ultima la ascoltavo di nascosto mentre ostentavo odio feroce in pubblico, la prima proprio non la potevo soffrire.
Si era ancora in un’epoca in cui, se ascoltavi gruppi di nicchia (nel mio caso soprattutto Metal, come ho spesso raccontato), non potevi apprezzare nulla che fosse anche solo lontanamente “commerciale”, come si diceva allora. Non era mica come in questi ultimi anni, che uno può sbavare dietro l’ultimo dei Cloud Nothings e nello stesso tempo dissertare dei suoni di un singolo di Beyoncé. Quando ero al liceo questi due mondi, chiamati per comodità “mainstream” e “indie”, erano e dovevano rimanere per forza di cose separati.
Adesso che è uscito “Supersonic”, il film documentario di Mat Whitecross che racconta più o meno nel dettaglio i primi due anni e mezzo di vita della band di Manchester, questo disprezzo deve obbligatoriamente essere accantonato.
Non ho mai fatto pace con gli Oasis, tanto per intenderci. Loro si sono sempre definiti “la più grande rock band del mondo” e nell’arco delle due ore di durata della pellicola non fanno che ripeterlo ad ogni piè sospinto. Io non sono nessuno ma se mi è concesso di esprimere un’opinione, non ho mai pensato che fosse così.
Sono stati grandi, certo. E hanno scritto canzoni meravigliose. Canzoni enormi, di sicuro. Canzoni gigantesche. Quando nel corso del film si vedono che eseguono le più famose, da “Live Forever” a “Supersonic”, da “Rock and Roll Star” a “Champagne Supernova”, viene davvero la pelle d’oca.
Verso la fine, c’è Noel Gallagher che canta e suona da solo “Don’t Look Back in Anger” e in quel momento sono stato colpito, folgorato dall’impressione che una canzone con quel potenziale si fa veramente fatica a trovarla. Qualche critico parlava di “canzoni assolute” riferendosi al Bob Dylan di “Blood on The Tracks” ma è un’espressione che userei tranquillamente anche per quelle dei loro primi due dischi.
Forse il loro problema più grosso sta dentro implicitamente nel tema di questo documentario: ci sono i primi due anni e mezzo della band, dalla firma del contratto con la storica Creation Records di Alan Mc Gee, ai due sold out consecutivi a Knebworth, nel 1996, due concerti da 250mila persone, che segnarono l’apice assoluto nella carriera della band di Manchester e forse anche di ogni band inglese nella storia, Beatles inclusi.
Ma da lì, dove puoi andare dopo? Se lo chiedono, seppur in modi diversi, anche i fratelli Gallagher, nelle interviste rilasciate al regista, che costituiscono il grosso di questo film.
Ecco, se un difetto si può trovare alla carriera degli Oasis, è che il suo momento di gloria è durato troppo poco. Hanno registrato due capolavori, un terzo disco attesissimo realizzato in condizioni psicofisiche pietose e che si rivelò ben al di sotto delle aspettative.
Dopo questo, il nulla. Litigi sempre più gravi, scioglimenti, rappacificazioni, una manciata di dischi lontanissimi dallo stato di grazia originale.
Fino all’ultima, memorabile zuffa in un camerino di Parigi e la decisione di non vedersi mai più, impegno che fino ad ora è stato rispettato.
Tutto questo Mat Whitecross non lo racconta, perché la mossa originale di “Supersonic” è stata proprio l’approssimarsi del ventesimo anniversario di quei due storici show inglesi; ma c’è anche da dire che non si tratta di una storia che merita di essere raccontata: è uno svanire lentamente, quello degli Oasis, una parabola che quanto più prosastica non potrebbe essere. Meglio dunque ricordarli nei loro inizi, quando realizzarono davvero qualcosa di incredibile, che non sarebbe mai stato eguagliato in seguito da nessun altra band.
E dobbiamo dire che il progetto è riuscito: “Supersonic” è un film godibile e accattivante, che riesce a non cadere nella trappola dell’autocompiacimento, tipico di certi prodotti analoghi.
L’idea, nata dal produttore Simon Halfon, fan della prima ora della band e amico personale di entrambi i fratelli Gallagher, e che si è poi allargata alla produttrice Fiona Neilson e al regista Mat Whitecross, è molto semplice ma allo stesso tempo efficace: raccontare le origini e l’ascesa degli Oasis attraverso le voci di Noel e Liam, catturate in interviste esclusive, rilasciate in rigorosa separata sede, dati i rapporti che intercorrono al momento tra loro.
La particolarità sta nel fatto che di loro è stata tenuta solo la voce fuoricampo, che fa da collante ad immagini di repertorio donate dalla madre, dagli amici e dagli ex membri del gruppo, e che contengono moltissimi filmati amatoriali di concerti, prove, sedute di registrazione e momenti di relax.
La storia che viene narrata è quella che tutti conoscono, da questo punto di vista non ci sono grandi novità e l’interesse deriva dal fatto che il materiale è per la stragrande maggioranza inedito.
C’è la Manchester operaia di inizio anni ’90, due fratelli appassionati di musica e tifosissimi del City che vivono nelle case popolari, cresciuti dalla madre dopo che questa è fuggita dal marito violento che picchiava lei e i figli. C’è la nascita della band per iniziativa di Liam, l’ingresso di Noel, che girava già il mondo come roadie degli Inspiral Carpets e che quasi subito prenderà le redini della formazione, soprattutto a livello di songwriting. C’è il famoso concerto a Glasgow dove furono notati da Alan Mc Gee, proprietario di quella Creation Records che aveva allora sotto contratto gente del calibro di Jesus and Mary Chain, Primal Scream e My Bloody Valentine. C’è il successo folgorante dei primi due singoli, l’ascesa vertiginosa dell’album di debutto, la conquista degli Stati Uniti, l’isteria collettiva di “(What’s the Story) Morning Glory”, i Grammy, i tour mondiali sempre più estesi, fino ad arrivare alle due serate di Knebworth.
In mezzo, anche tutto il prezzo che ci fu da pagare: gli eccessi da rockstar, l’abuso di alcol e droghe, il conflitto di personalità tra Liam e Noel, le liti furibonde, le fughe, i drammi silenziosi degli altri due membri originali, il bassista Paul “Guigs” Mc Guigan e il secondo chitarrista Paul “Bonehead” Arthurs, che hanno sempre fatto il loro sporco lavoro onestamente, mostrandosi forse un po’ più seri e stabili degli altri due, ma che proprio per questo, alla fine, hanno sofferto allo stesso modo e forse anche di più, lontano dagli assilli delle telecamere e dalle attenzioni ossessive dei fan. C’è l’altrettanto triste vicenda del primo batterista, Tony Mc Carroll, licenziato all’indomani del primo disco perché troppo scarso e che non si è mai più ripreso dalla delusione.
A partire da tutto questo, il pensiero che se ne ricava è interessante: gli Oasis sono stati veramente una band di rockstar. Quella razza oggi scomparsa che sfasciava le camere d’albergo, si drogava fino all’incoscienza, scatenava risse sul palco, e coltivava il proprio ego come fosse un giardino fiorito, ha avuto nei fratelli Gallagher i suoi ultimi rappresentanti.
Il mondo odierno del rock è tutta una gara a chi si comporta in modo più serio e professionale e non è detto che sia un male, anzi. Ma oggi c’è un narcisismo alimentato dai Social Network che avvolge le personalità e influenza la creatività; un voler essere protagonisti che si traduce nello sforzo parossistico di avere un’immagine pubblica all’altezza, una tensione spasmodica a non fallire mai, visto che sei costantemente visto e seguito da milioni di persone.
Noel e Liam se ne fregavano. Depistare i giornalisti era relativamente semplice e quando hai poco più di vent’anni, come dicono loro stessi nel corso del film, pensi solo a divertirti, curandoti ben poco delle conseguenze.
Hanno portato avanti tutto questo pensando a godersela, hanno sentito il peso del successo solo in un secondo momento e il loro essere meravigliosamente senza filtri (Noel è un comunicatore eccezionale e gran parte del fascino di “Supersonic” deriva proprio dalle sue battute memorabili) li ha resi unici e indimenticabili.
Si sono autodistrutti? Da un certo punto di vista, sembrerebbe di sì: i due fratelli, legati da un rapporto di amore e odio, due ego smisurati che non avrebbero mai potuto coesistere stabilmente se non a prezzo di grandi sacrifici, oggi non si parlano più e al momento non ci sono segni che la situazione possa mutare.
Oltretutto, la loro corsa senza freni, la totale mancanza di ogni senso della misura, ha impedito loro di accorgersi per tempo di che cosa stava succedendo e li ha portati a fare scelte sbagliate, col senno di poi (Noel Gallagher, per esempio, ha recentemente dichiarato che far uscire “Be Here Now” fu un errore, avrebbero prima dovuto prendersi un paio di anni di pausa per ricaricare le batterie).
Però occorre guardare anche al lato positivo: Noel sta vivendo una seconda giovinezza col suo progetto solista, che non farà i numeri della sua band madre, ma che comunque si difende alla grande; Liam, che musicalmente parlando non ha avuto la stessa fortuna, è comunque immerso in molti progetti paralleli, che sembrano dargli una certa soddisfazione.
E in effetti, lo sguardo di Whitecross in “Supersonic” non è uno sguardo tragico; non c’è il rimpianto di qualcosa che avrebbe potuto durare a lungo e che è invece finito troppo presto. Semmai, c’è tanta, tantissima nostalgia, per un’epoca che non c’è più.
Già, perché le parole di Noel Gallagher in chiusura di film, mentre scorrono le immagini di “Champagne Supernova” dal concerto di Knebworth, sono eloquenti: nell’epoca di internet, potrebbe ancora nascere una band come la nostra?
È una domanda che aleggia per tutte le due ore della proiezione e quando finalmente viene esplicitata, si capisce che forse il cuore della questione è tutto qui.
Il coproduttore James Gay Rees ci ha visto giusto dichiarando che: “I social media hanno cannibalizzato la cultura pop inglese. Non c’è più nessuna magia, tutto è troppo accessibile e virtuale. Dovremmo tornare a sporcarci le mani, anche se ho paura che ormai sia impossibile invertire la marcia. Non vorrei sembrare nostalgico, ma l’omologazione mi sembra una cosa triste. Comunque, credo che gli Oasis siano venuti fuori per un motivo, e che quel motivo non esista più.”.
E dunque, al di là di ogni giudizio storico sulla carriera di questa band, credo che il maggior punto di valore di “Supersonic” (al di là della sua oggettiva bellezza) stia proprio nel suo saperci ricordare che inseguire i propri sogni, anche quando sembrano folli, anche quando tutto sembra contro di noi, potrebbe portarci a distruzione ma è anche, in maniera paradossale e drammatica, ciò che ci rende veramente uomini.
Quando andrete a vederlo pensate che in fin dei conti il rock è stato e dovrebbe continuare ad essere questa cosa qua.