Sembrerebbe assurdo che nel 2016, col terrorismo islamico alle porte dell’Occidente e una sigla come ISIS a spaventare in maniera più che concreta adulti e bambini, una band che poco più di due anni fa ha scelto di chiamarsi Viet Cong, debba cambiare nome per le sempre maggiori difficoltà a trovare ingaggi un po’ ovunque, dall’Australia agli Stati Uniti.
Eppure è andata proprio così. La band canadese, nata nel 2013 su iniziativa del bassista e cantante Matt Flegel e del chitarrista e tastierista Scott Munro, è stata al centro di una non piccola tempesta mediatica, a partire dal rifiuto degli organizzatori di un festival a Melbourne di farli esibire a causa del loro nome (nel Victoria esiste una numerosa comunità vietnamita e non è escluso che questo abbia pesato).
Certo, i quattro giovani di Calgary hanno forse peccato di ingenuità (pare che abbiano dichiarato in un’intervista, ancora in tempi non sospetti, di aver scelto questo nome perché i Vietcong erano i cattivi di molti film che guardavano da piccoli) e i guerriglieri comunisti comandati da Ho Chi Minh sono ancora un ricordo indelebile e traumatico in un paese come gli Stati Uniti, che con questa guerra ha scritto una delle sue pagine più terribili.
Eppure, quando pensi che un tempo esistevano band molto più famose che si chiamavano Joy Division (il nome che i Nazisti davano alle ragazze ebree da loro utilizzate come schiave sessuali) o Dead Kennedys, oppure che in Italia abbiamo Giorgio Canali, che da sempre dice cose politicamente scorrette e suona con una bandiera del Vietnam sulla chitarra, qualche perplessità ti viene ugualmente.
Lo faccio notare a Matt subito dopo il loro show, mentre è appoggiato al bancone del bar con davanti una pinta di birra appena ordinata: “Cosa ci vuoi fare – mi risponde – in Europa siete molto diversi, vi fate meno problemi e, probabilmente, avete anche avuto una storia che vi ha permesso di elaborare diversamente certi avvenimenti. Per noi le cose non sono proprio così.”
Al di là di questo, la band è più viva che mai e non ha intenzione di mollare il colpo, soprattutto da quando è riuscita a raggiungere l’ambito traguardo del vivere di musica, cosa non certo facile al giorno d’oggi.
Il nuovo nome, Preoccupations, lo hanno scelto da una rosa proposta da un amico, e non si può certo dire che abbia l’impatto e l’efficacia del precedente. Per nostra fortuna, almeno la musica è rimasta la stessa.
Forse leggermente inferiore al precedente (l’esordio “Viet Cong” del 2015), “Preoccupations” (immaginiamo che dalla prossima volta dovranno iniziare a pensare anche a dei titoli per i loro lavori), rimane lo stesso un bellissimo disco di Post Punk teso e ossessivo, fatto di un sound scarnificato e geometrico, tutto incentrato sulla ripetitività degli accordi e il carattere poco rassicurante delle melodie.
Nel maggio del 2015 li vidi a Barcellona, la sera prima dell’inizio del Primavera Sound. Suonavano alla Sala Apolo e ricordo le mie orecchie sanguinanti e i muri quasi frantumati dalla violenza sonora e dai volumi altissimi. Quando lo ricordo a Matt, lui sorride e mi dice che sì, quello se lo ricordano come uno dei loro concerti più belli di sempre.
Questa sera purtroppo non va altrettanto bene, se non altro per la location prescelta.
Il Magnolia non gode certo di una buona reputazione in fatto di resa sonora, ma in più la sorpresa negativa è che la band è stata sistemata sul palco più piccolo, situato in una sorta di budello laterale, in una zona dalla planimetria tale da permettere solo alle prime due file di vedere qualcosa. Una scelta pessima, considerato che in passato mi è capitato di vedere show dall’affluenza molto più bassa allestiti nel palco principale.
Poco male, trovata miracolosamente una posizione laterale di fortuna, mi sistemo alla bell’e meglio per seguire lo show.
Show che si apre nella maniera migliore, con le marziali geometrie della nuova “Anxiety”, subito seguita dalla più sostenuta “Silhouette”, giusto per far capire che, avranno anche cambiato nome, ma che il vecchio repertorio non ha intenzione di andarsene dalla setlist.
Il palco minuscolo non permette molto movimento ma i quattro riescono a spaccare lo stesso alla grande: potentissimo l’impatto sonoro, anche se non fragoroso come in passato, visto che i nuovi brani vivono di sonorità nel complesso meno cariche.
Munro e Daniel Christiansen si alternano spesso tra chitarra e sintetizzatore e l’effetto generale è notevole, il tessuto sonoro cambia spesso in maniera affascinante. Particolare menzione per il batterista Mike Wallace, una macchina letale che garantisce un ritmo elevatissimo per tutta l’ora e un quarto di durata.
C’è poco respiro, tra un brano e l’altro, Matt non parla mai, se non alla fine per ringraziare e presentare gli altri; i presenti applaudono alla fine di ogni esecuzione ma poi sul Magnolia cala il silenzio, quasi che avvertissero l’angoscia che all’attacco di ogni nuovo episodio si sarebbe riversata su di loro.
Angoscia e sofferenza che il ritmo ossessivo ed incalzante dei vari brani tendono ad alimentare; sono le atmosfere plumbee e senza uscita di un certo Post Punk, un sound glaciale e a tratti asettico che ha fatto sì che i canadesi, soprattutto dopo il cambio di monicker, venissero accostati ai Joy Division, anche se a mio parere le due band hanno poco in comune, a parte certe linee di basso e l’appartenenza al medesimo universo sonoro.
I nostri sono infatti molto più aggressivi e pesanti, con uno sconfinamento piuttosto radicale verso il Noise. I feedback, la ripetizione ossessiva dei giri, gli accordi ripetuti fino allo sfinimento al termine della conclusiva “Death”, con Mike che colpiva i piatti come se ogni volta una bomba fosse in procinto di cadere; tutto questo ha rappresentato un’esperienza alienante ma allo stesso tempo profondamente catartica.
Perché come sempre è, quando si parla di un act estremo e disturbante come il loro, c’è anche tanta, tantissima bellezza, nella loro musica. Un qualcosa che in tracce come “Zodiac”, “March of Progress” o la vecchia “Select Your Drone”, unico estratto dall’ep d’esordio, risulta più che evidente.