In realtà Bob Dylan a Stoccolma a ricevere un prestigioso premio, il Polar Prize, dalle mani del re di Svezia c’era già stato. Era il 2000, e quello che è “considerato uno dei più importanti riconoscimenti in ambito musicale e come l’equivalente per la musica del premio Nobel” fu consegnato con la motivazione che “attraverso il suo approccio modesto ma convincente per la musica, ha dimostrato una notevole capacità di mettere in discussione le forze politiche più determinati, combattere ogni forma di pregiudizio e offrire un sostegno risoluto ai meno fortunati”. 



Le immagini della cerimonia mostrano un Dylan completamente a disagio come sempre in queste occasioni, culminate nella consegna di un mazzo di tulipani o che altro, in cui il piccolo cantante americano si nasconde cercando di sprofondare nell’anonimato.

Sembrava che con quel premio Dylan avesse raggiunto il massimo che poteva raggiungere, l’equivalente appunto del premio Nobel per la musica: di tanto doveva accontentarsi, perché era un musicista e tale doveva rimanere. Invece è poi arrivato il premio Nobel per la letteratura e tutte le carte sul tavolo sono saltate in aria, con un cortocircuito mediatico a livello mondiale di cui si hanno avuto rari esempi. E’ successo cioè quello che la musica rock, nei suoi momenti migliori, ha sempre avuto lo scopo di fare: ribaltare le normali concezioni di regole e vita. 



Quell’approccio “modesto” è stato il cuore di una cerimonia, quella della mancata consegna del Nobel dato il suo “gran rifiuto” di parteciparvi, tale che da domani nessuno ricorderà più ogni precedente premiazione del Nobel e in cui in futuro nessuno, dopo questa, troverà interesse. In una sua canzone ormai dimenticata (anche perché lui stesso non l’ha più eseguita in concerto) degli anni 70, Dylan, profetizzando quanto accaduto nel 2000, diceva: “I have dined with kings, I’ve been offered wings And I’ve never been too impressed”, ho cenato con i re, mi sono state offerte delle ali, ma non ne sono mai rimasto impressionato.



Il suo approccio modesto alla vita, la sua umiltà artistica, ha fatto sì che al suo posto ci fosse un’altra cantante rock, Patti Smith. In quel modo facendo, Dylan è sembrato voler offrire a quanti sono venuti dopo di lui e che grazie a lui sono diventati a loro volta espressioni dell’espressività artistica come appunto Patti Smith, l’opportunità di condividere quel momento storico. 

E’ stato così che una ragazza punk, pur se oggi avvolta in meravigliosi e lunghi capelli bianchi, si è esibita davanti a re e principesse e ha rilasciato una performance di una grandezza inestimabile. Nella grandezza c’è spazio per gli errori, come quello che lei ha fatto, talmente emozionata da sbagliare i primi versi della canzone che ha eseguito. A differenza di quello che dobbiamo fare nel lavoro di ogni giorno, che siamo ingegneri o semplici impiegati, noi dobbiamo cercare di essere perfetti perché il meccanismo non si inceppi. Così ci vogliono e così dobbiamo compromettere la reale natura del nostro cuore, che non è diversa da quella di un artista.

Le cose che produciamo devono essere forti e precise, non ammettono errori. L’arte invece è forte nel momento in cui si dimostra fragile. Quando lavori nel campo dell’espressione umana sei sul punto di spezzarti ogni singolo momento, se sei sincero e connesso con il tuo cuore perché il cuore stesso è fragile. Se Bob Dylan fosse stato al posto di Patti Smith nel momento in cui ha sbagliato i versi della canzone, con quel suo modo di cantare che rende apparentemente irriconoscibile quello che dice, non si sarebbe fermato e avrebbe proseguito. Bob Dylan è un folksinger, non una orchestra sinfonica: se le cose non vanno bene, dai un colpo di tosse e prosegui.

Patti Smith ha messo in mostra tutta l’umiltà del suo cuore: ha sbagliato, ha ammesso che era “nervosa”, ha chiesto per favore se potevano ricominciare, fortemente imbarazzata. Lei, la ragazza punk che di solito sputa sui palcoscenici. E nel momento in cui ha cantato “and I’ll know my song well before I start singin'”, saprò bene la mia canzone prima di cominciare a cantare, non è stato possibile non sentirsi ricoperti di brividi di emozione. Alla fine nella sua “modestia” è stata più maestosa di re e principi presenti. In questo modo non ha rappresentato se stessa, ma tutti noi e i nostri cuori. E la nostra fragilità.

“Bob Dylan è stato uno shock. Il pubblico che si aspettava canzoni folk, si è trovato davanti un giovanotto con la chitarra che fondeva il linguaggio della strada e della bibbia in un nuovo elemento che avrebbe fatto sembrare la fine del mondo un replay superfluo”, ha detto Horace Engdahl, che a nome dell’Accademia di Stoccolma ha presentato il premio al cantante assente. L’accademico ha aggiunto che “aver riconosciuto la rivoluzione attribuendo a Dylan il Nobel sembrava al momento audace: ora sembra già ovvia”.

In una serata di cui quasi nessuno ha capito scopo e contenuti, in una celebrazione che ha infastidito i molti, la musica rock si è rivelata ancora una volta quella che il cantante Elliott Murphy definii già negli anni 70: “l’unica cosa onesta che ci è rimasta”.

A fronte di scrittori invidiosi e abbruttiti che si contendono a colpi bassi questo tipo di premi e di case editrici pronte a sborsare cifre enormi perché uno della loro scuderia porti a casa un premio Strega, questa sera abbiamo assistito a un rimpallo: vado io o vai tu? Vai tu che lo meriti come e più di me. Modestia, umiltà e fragilità sono le parole che porteremo a casa. E nessun premio Nobel avrà più il valore che aveva prima. 

Da parte sua Dylan ha inviato una lettera in cui ha reso chiaro ed evidente come le canzoni rock siano l’equivalente di quanto abbia fatto Shakespeare: “Ho fatto decine di dischi e suonato migliaia di concerti in tutto il mondo. Ma è le mie canzoni che sono al centro vitale di quasi tutto quello che faccio. Sembrano aver trovato un posto nella vita di molte persone in molte culture diverse e sono grato per questo”.

“Ma c’è una cosa che devo dire. Come interprete ho suonato per 50.000 persone e per 50 persone e posso dirvi che è più difficile suonare per 50 persone. 50.000 persone hanno una personalità singolare, non è così con 50. Ogni persona è un individuo, una identità separata, un mondo a se stesso. Essi possono percepire le cose in modo più chiaro. La tua onestà e come si riferisce alla profondità del tuo talento è messa alla prova. Ma, come Shakespeare, anch’io sono spesso occupato a perseguire i miei sforzi creativi e occuparmi di questioni banali della vita. “Chi sono i migliori musicisti per queste canzoni?” “Sto registrando nello studio giusto?” “E ‘questa canzone nella chiave giusta?” Alcune cose non cambiano mai, anche  400 anni dopo”. 

Ma soprattutto, “dove lo trovo un teschio umano?”: “Ci scommetterei che la cosa più lontana dalla mente di Shakespeare fosse la domanda: sto facendo della letteratura’”.

E’ stata una serata unica e irripetibile. Per chi è nato e cresciuto con questi uomini e donne, Bob Dylan e Patti Smith, un momento che ha trovato il suo significato profondo nelle mani della cantante che si coprono gli occhi in lacrime per la commozione.