Il 30 novembre è iniziata per il San Carlo di Napoli una “stagione” di grande rilievo: ben 17 titoli di opera (a cui aggiungere quelli di balletto ed un ricco programma sinfonico). La stagione ha debuttato con Otello di Gioacchino Rossini nel secondo centenario dalla sua prima assoluta, al Teatro del Fondi di Napoli (il San Carlo era in riparazione dopo un incendio)
Teatro pienissimo, abiti lunghi e pellicce per le signore (il clima era quasi siberiano), smoking per i signori. Anche se presentata con un unico intervallo (di venti minuti), l’opera ha proporzioni wagneriane: circa quattro ore. Dopo lo spettacolo la Maison Bulgari offriva una cena ad un gruppo di invitati. Il grande foyer, che si apre sui giardini di Palazzo Reale, era chiuso per predisporre il banchetto. Quindi, afferrare una foglietta od un panino od andare alla toilette diventava un’avventura.
Duecento anni fa Otello fu uno strepitoso successo: si contano circa trecento allestimenti o riprese in tutta Europa (di cui 70 nella sola Francoforte ed alcuni, come a Roma e Firenze, con finale ‘lieto’ non tragico – ossia Desdemona non veniva uccisa ed Otello non si suicidava ma i ‘malvagi’ ossia Jago, venivano punti ed un grande rondò con concertato terminava l’opera).
Adesso Otello è una rarità: memorabili gli allestimenti a Roma di Giorgio De Chirico nel 1964 e quello a Pesaro nel 2008, curato da Giancarlo Del Monaco e coprodotto con l’opera di Losanna e la Deutsche Oper di Berlino (dove è entrata in repertorio). Un allestimento allora giudicato controverso senza scene dipinte ispirate ai vedutisti veneziani ma una grande sala (con tante porte) di inizio Ottocento.
In questa “prigione” (per Desdemona), con il mare ed il cielo sempre presenti, si svolgeva una vicenda che solo nel finale si riallaccia alla tragedia di Shakespeare.
A fine Ottocento, l’Otello rossiniano sparì dalle sene non tanto perché soppiantato da quello di Verdi (il cui bellissimo libretto è interamente tratto da Shakespeare) ma perché i gusti del pubblico (soprattutto in materia di libretti) dopo anni di melodrammi verdiani e di musik drama wagneriano non c’erano più le voci per i ruoli rossiniani
L’opera di Rossini attinge solo in parte a The Tragedy of Othello, the Moor of Venice di William Shakespeare (soprattutto nel finale), più nitidi sono invece i riferimenti a Othello, ou Le more de Venise, di Jean François Ducis, del 1792. Il protagonista non è il Moro (definito da Stendhal ‘’poco tormentato, poco tenero e molto vanitoso che sconvolto fa un’isterica follia ed arriva ad uccidere’) ma Desdemona, torturata dall’amore per il padre, che vuole darla in moglie al figlio del Doge mentre ella è già sposa segreta ed innamorata di Otello.
La vicenda e la musica hanno come focus centrale la storia di una fanciulla calunniata che muore innocente, tema consueto in quel periodo. In effetti, la tragedia di Shakespeare, che non credo si vedesse nei teatri italiana ma in edizione modificata aveva appena raggiunto quelli francesi, viene adattata al teatro larmoyant in cui una fanciulla innocente (Desdemona), ama l’eroe della pièce (Otello) ma il padre (Elmiro) ha promesso al figlio del Doge (Rodrigo). Jago si inserisce nella vicenda per la macchinazione finale. Un libretto considerato insulso nel tardo Ottocento quando piacevano i ‘drammi forti’ di pancia e sangue.
Inoltre, l’opera era costruita a pennello per Isabella Colbran, un soprano ‘anfibio’ che in quel periodo era amante sia del giovane pesarese (che poi sposò) sia dell’impresario Barbaja (datore di lavoro di ambedue). L’idea geniale di Rossini fu di contrapporle tre tenori: uno dalla vocalità larga e spianata (Otello), un contaltrino di agilità,con una tessitura dal mi bemolle al do acuto (Rodrigo), ed un terzo dal timbro scuro quasi baritonale (Jago). Voci introvabili a fine Ottocento e che oggi di possono ascoltare principalmente grazie al lavoro trenta cinquennale dell’Accademia Rossiniana di Pesaro.
E’ invalso l’uso di affidare le regie liriche a divi del cinema. Questa volta è stato chiamato Amos Gitai a maneggiare questo gioiello di inizio Ottocento, più vicino a Mozart che a Donizetti. Gitai è uso a film forti unidirezionali (per intenderci, per mutuare da un recente editoriale di Panebianco sul Corriere della Sera quelli dove si piange ai funerali del dittatore Castro ma non a quelli di Franco, anche lui dittatore pur se meno sanguinario). In interviste a vari giornali, Gitai ha affermato che il tema di fondo è che l’Otello rossiniano è un migrante portato ad uccidere da discriminazioni razziali.
Dopo la sinfonia, un filmato (ad orchestra silente) mostra scene della guerra in Medio Oriente per poi entrate nelle grandiose scene rinascimentali di Dante Ferretti. Ancora meno la lettura di Gitai quadra l’azione (centrata su Desdemona) e con la delicata partitura. Una regia con questa chiave era appropriata alll’Otello verdiano, come in quella di Vera Nermirova vista un lustro fa in vari teatri europei. Poco in linea però con una partitura raffinata ed una scrittura vocale dominata da coloratura. Gitai si è preso qualche fischio (pochi a mio avviso perché i napoletani sono ben educati ed un nutrito drappello aveva fretta di andare a cena). Spero che ritorni alle sue più consuete e a lui più consone attività.
Alla base del successo dello spettacolo c’è la musica dell’allora giovane, ed amante impetuoso, Gioacchino Rossini, la bravura del maestro concertatore, Gabriele Ferro, e dell’orchestra (ottimi i legni e gli ottoni) ed il virtuosismo dei cantanti.
Di altissimo livello la parte musicale. Con la bacchetta di Gabriele Ferro , l’orchestra del San Carlo è in grande forma ; ottima l’idea di attenuare il suo acuto raddoppiando il quartetto di archi e dare un suono più brunito ed alzando l’orchestra sino quasi a sfiorare il palcoscenico come ai tempi di Rossini. Nino Machaidze è la protagonista assoluta sia sotto il profilo vocale sia come bella e grande attrice con un distinto sviluppo psicologico nel corso dell’opera. John Osborn (Otello), Dmitry Korchak (Rodrigo) e Juan Francisco Gatell (Iago) sono i tre tenori, di altissimo livello, che la circondano e contendono per lei. Una squadra che pochi teatri sarebbero in grado di mettere insieme.