“Come mai tante celebrità morte nel 2016?” ha intitolato un articolo un paio di giorni fa il quotidiano inglese The Mirror (che si fregia di sotto intitolarsi “The intelligent tabloid”…), ripreso poi in chiave casareccia da diversi siti italiani, come sempre pronti a sruttare l’altrui banalità. Chi può dirlo: forse una epidemia, oppure la droga, come si è chiesto in un tweet Mario Adinolfi: “Tutti questi morti famosi che piangiamo nel 2016 si drogavano come matti. Forse la cosa ha contribuito alla loro prematura fine?”.



In realtà non si drogavano “tutti come matti”, almeno non più, anche se certamente certi abusi si pagano nel corso del tempo, come è il caso del leader dei Motorhead Lemmy, il primo ad aprire la lunga scia di morti celebri il 28 dicembre 2015, un fisico debilitato da anni di bevute colossali. Ma di casi analoghi, in questo 2016, ce ne sono stati pochissimi: George Michael, pare, si è ucciso con una overdose di eroina, il che significherebbe si sia trattato di suicidio, sembra a causa di una forte depressione. 



Prince invece è morto di overdose di oppiodi, come succede da anni a decine di migliaia di americani, antidolorifici concessi dai medici come fossero aspirine, che creano dipendenza e stanno compiendo una strage di massa nel paese più ricco del mondo. Dunque la star di Minneapolis è morto come una casalinga del Wyoming. David Bowie è morto di tumore, anche lui come milioni altre persone, incluso il top manager della City londinese o un qualunque parroco di periferia, così come di tumore è morto il nostro bravissimo cantautore Gianmaria Testa e ancora Greg Lake.

In realtà quasi tutti sono morti perché anziani o a un passo dal diventare tali, come è normale.  



Ad Adinolfi e al Mirror, nel festival della sconcertante banalità, hanno fatto nel corso dell’anno eco i tanti commenti degli utenti dei social network del tipo: “noooo…. anche lui.. ma che sfiga, che anno di m…”. Attenzione, vogliamo darvi una notizia in esclusiva: tutti dobbiamo morire, specie gli anziani: Leonard Cohen di anni ne aveva 82. Forse a scuola questa cosa della mortalità non si dice più.

Tranqulli dunque, nel 2017 ci sono buone possibilità che l’epidemia di star continui, per il semplice motivo che i grandi nomi della musica appartengono a un tempo ormai lontano, e l’età è quel che è. Inoltre negli ultimi decenni il mondo della musica ha prodotto una infinità di personaggi, ognuno con il suo seguito affezionato e tempo per piangerli ce ne sarà moto. Decenni in cui artisti straordinari riempivano le nostre camerette di dischi, le radio di bellissime canzoni e i nostri cuori di tanti sogni. Varrebbe piuttosto prendere in considerazione che un’epoca storica di grande musica sta lentamente chiudendosi: per un Paul Kantner che muore, nessun Chris Martin ne prenderà il posto. Ma anche questo è fisiologico: è successo con la musica classica e operistica, con il jazz, con il blues. La corsa sta finendo e non si vede n essuno in grado di rimpiazzare i grandi che se ne stanno andando. 

Non facciano nomi e previsioni, ma intanto ci fa sorridere l’immagine di un Keith Richards che sì, Adinolfi in questo caso ha ragione, di droga ne ha consumata quantità industriali, ma che è stato simpaticamente ritratto sui social network con il suo volto segnato da centinaia di rughe dall’alto dei suoi 72 anni compiuti alla fine di dicembre,con in mano sorridente un cartello: “Sono sopravvissuto al 2016”, oppure con un giornale in mano “Guardiamo a chi sono sopravvissuto oggi”. Probabilmente il chitarrista degli Stones ci seppellirà tutti.

In realtà c’è una cosa che ci colpisce davvero anche se non siamo in grado di metabolizzarla e reagiamo in modo scomposto davanti alla morte di questi personaggi: ci dispiace, perché hanno riempito la nostra vita di gioia e bellezza. Magari anche quelli che non erano tra i nostri preferiti, che non rientravano nei nostri gusti musicali. Anche qui sui social si è assistito a una parata di cinismo specchio di un’epoca cialtrona, commentare “chi se ne frega se è morto George Michael o Glenn Frey degli Eagles, facevano musica del c…”, “a me non sono mai piaciuti etc”, ma insomma è morta una persona e in molti li amavano. La guerra tra “quelli del compianto a tutti i costi” e quelli del “compiangere tutti è patetico” è stata una delle cose più divertenti dell’anno.
D’altro canto viviamo da parecchio tempo, decenni, in un’era della frammentazione dei gusti, dei pareri, della politicae  dell’io. Lo diceva già Lester Bangs nel 1977 all’indomani della morte di Elvis, capendo che eravamo condannati a muoversi in una moltitudine di strade diverse che ci avrebbe fondamentalmente resi tante solitudini, oggi esaltate dai social network: “Per me sarà Iggy Pop, per te sarà Joni Mitchell. Ma di una cosa possiamo essere certi: non saremo mai più concordi su una cosa tanto quanto lo siamo stati su Elvis”. Era l’unico che ci ha dato un senso di comunione, nella sua tragica grandezza.

Ma insomma: stiamo parlando di gente, questi artisti che ci hanno lasciati, che ha dedicato la propria vita a rendere felice il prossimo, magari pagando in prima persona con conseguenze devastanti, perché non è cosa da tutti fare quello che hanno fatto queste, c’è sempre un prezzo da pagare. E allora: c’è qualcosa di più bello del rendere felici gli altri? Al sottoscritto viene solo da dire: grazie a tutti quanti per aver reso le nostre vite più belle e gioiose. Abbiamo un debito con voi. E no, questo 2016 non è stato un anno nero per la musica. E’ stato un anno di gloria.