Da mesi migliaia di nativi americani appartenenti alla tribù Sioux della riserva di Standing Rock protesta in Nord Dakota contro la costruzione di un gasdotto che nel suo percorso dovrebbe passare sotto a un lago che per quasi un chilometro si trova nel loro territorio. Non solo: per costruire la conduttura verrebbe anche distrutto il sito di un antico luogo cimiteriale dei loro antenati. 



Una notizia del tutto ignorata dai media italiani, ma abbastanza snobbata anche da quelli americani: per trovare un aggiornamento quanto più recente siamo dovuti andare sul sito di Al Jazeera (!). 

Aggiornamento che dice tra le altre cose che il governatore del Nord Dakota ha ordinato nei giorni scorsi di espellere tutti i manifestanti dalla zona occupata da mesi, con la scusa che sta arrivando l’inverno con prevedibili tempeste di neve e questo metterebbe in pericolo i manifestanti stessi. I capi della protesta hanno rifiutato, dopo che nelle scorse settimane le forze dell’ordine più volte avevano usato contro di loro la forza, ad esempio sparando acqua con i cannoni mentre la temperatura era già molto bassa.



Mentre le pagine di ogni giornale e le immagini di ogni telegiornale da sempre danno risalto a ogni manifestazione e a ogni problematica relativa agli afro americani, i nativi sono stati rimossi dalla coscienza non solo mediatica ma anche pubblica. Vittime di uno dei genocidi più orribili della storia, gli abitanti originari degli Stat Uniti vivono confinati in riserve miserabili, vittime di alcolismo e povertà nel disinteresse di tutti. 

Anche del mondo del rock, che nelle sue grandi battaglie per i diritti civili si è allegramente dimenticato di loro, con rarissime eccezioni Tra questi il gruppo dei tanto esecrati Eagles, che negli anni 70 tennero numerosi concerti in loro solidarietà, o l’ex leader di The Band Robbie Robertson, che però era di sangue indiano, che dedicò loro il bellissimo “Music for Native Americans”. E naturalmente Neil Young, che ha sempre dimostrato interesse per la loro causa. Il suo gruppo accompagnatore prese il nome di uno storico capo indiano, Crazy Horse, per dirne una. Il cantautore canadese lo scorso novembre nel giorno del suo compleanno si è esibito per i manifestanti del Nord Dakota e ha inviato una lettera aperta a Barack Obama in loro difesa: “Si tratta di un risveglio. Tutto qui insieme, con i propri parenti non nativi, siamo in piedi di fronte all’aggressione scandalosa, inutile e violenta, da parte di forze di polizia locali e statali militarizzate e della guardia nazionale, che  agiscono per per tutelare gli interessi di sfruttatori del Nord Dakota nel volte questo gasdotto  ad un costo di centinaia di migliaia di dollari dei contribuenti”.



Tra una manifestazione è l’altra è nato così nel giro di una settimana “Peace Trail”, il nuovo disco di Neil Young, inciso di getto in poche sedute, come da abitudine del canadese, un disco che trae parzialmente ispirazione da questi avvenimenti. 

Non è però un grido di battaglia, non è OhioRockin’ in the Free World. E’ un disco intimo e intenso, giocato su ballate dai toni blues o folk acustiche dove a tratti esplode il fragore della sua inimitabile chitarra elettrica. Il tema dei nativi americani è sottinteso, emerge qua e là, anche se l’unico brano esplicito in questo senso è Indian Givers. E’ un ritratto-cartolina di un’America di provincia e dimenticata, con il suo ranger texano, il contadino che la polizia vuole arrestare, attentatori suicidi psicopatici. Ed è sicuramente il suo lavoro migliore dai tempi di “Psychedelic Pills”.

Lo accompagnano solo il celebre batterista Jim Keltner, la cui batteria è doppiata e sostenuta in diversi casi da percussioni e ritmiche incalzanti che ricordano le percussioni tribali dei nativi americani, e dal bassista Paul Bushnell.

Il disco si apre con la title track, una splendida ballata dall’incedere tipico del canadese, dal ritmo sostenuto, e dalla bella melodia giocata con inserti vocali e corali da lui stesso eseguiti e squarci di chitarra elettrica satura come ai tempi dei suoi primissimi lavori. Un brano delizioso, un inno alla pace e alla speranza, che riapre di schianto il libro dei ricordi, suoi e nostri.

La successiva Can’t Stop Working è un blues notturno e quasi jazzato, il cui tema risponde a quanti accusano Young di iper produzione, quasi due dischi all’anno, spesso scadente: “Non posso fare a meno di lavorare quando non c’è di meglio da fare, perdonatemi”. Anche qui deflagrazioni di chitarra elettrica. Bellissima è Glass Accident, una ballata country tipicamente anni 70, con armonica e chitarra elettrica di sottofondo che potrebbe essere uscita da dischi come “American Stars n’ Bars”, in cui Young per la prima volta parla in modo sincero della fine del suo matrimonio decennale: mi sono svegliato con pezzi di vetro ovunque, erano troppi perché mi mettessi a raccoglierli, così me ne sono andato e ho lasciato un biglietto sulla porta; mentre Show Me è un blues uptempo che accenna ancora alla “terra sacra” degli indiani. 

My Pledge è un talking blues nella antica e originaria accezione del termine, un uomo solo davanti al giudice (l’America?) che racconta di come la sua gente sia arrivata con il Mayflower, i padri pellegrini, e poi ogni cosa sia andata alla malora: questo è il mio impegno, signor giudice, mentre John Oakes è una folk ballad di impostazione molto dylaniana. Non è il personaggio reale, uno studioso della fede cristiana, dallo stesso nome, ma un contadino che difende la sua terra dalla polizia che cerca di portargliela via. Indian Givers, che racconta la battaglia degli indiani Sioux, si muove sui tempi del blues, con una base percussionistica in evidenza ed è brano di grande impatto.

Non mancano le stranezze altrimenti Neil Young non sarebbe Neil Young: la bizzarra Terrorist Suicide Hang Gliders (il terrorista suicida con i deltaplani), brano che non va da nessuna parte con un’armonica registrata a livelli di distorsione, e soprattutto la finale My New Robot (“comprato su amazon.com”) che comincia solo voce e chitarra, facendoci pensare di essere dalle parti di “On the Beach”, ma che poi con l’arrivo di effetti elettronici, voci filtrate e quant’altro ci porta ai tempi di “Trans”. Ma se Young non fosse pazzo non lo ameremmo come invece lo amiamo.

Un bel disco, in cui a tratti emerge la vena di quello che è stato uno dei massimi autori di canzoni del Novecento, e che soprattutto ci domanda se i nativi americani hanno diritto a un “peace trail” anche loro, invece di essere la minoranza delle minoranze dimenticata da tutti.