Febbraio 1969, Jabberwocky Club – Syracuse, NY. Quel giorno c’erano le nuvole da entrambi i lati della strada. Come in questa canzone. Quale? Questa canzone, quella che da allora mi è rimasta nella testa: Clouds (Both Sides Now)

A Syracuse era una notte freddissima e al Jabberwocky Club quella sera suonava Dave Van Ronk, uno dei migliori artisti della scena folk. Lo vidi anni prima in una bettola al Greenwich Willage a New York, alla Stonewall Inn, e mi impressionò molto il fatto che suonasse quasi sempre con gli occhi chiusi, come se fuori piovesse e lui pregasse. Volevo rivederlo, mi dissi quel giorno, e lo avrei fatto appena possibile, magari per un’occasione speciale. Passò qualche anno e io non lo vidi, però un giorno venne un’occasione speciale. A Syracuse avevo conosciuto una ragazza dolcissima, Letizia, figlia di emigrati italiani. Aveva gli occhi scuri e il sorriso largo. Veniva da un paese pieno di vento e di neve messo sulle montagne del Molise. Montagano, in provincia di Campobasso. 



Nel 1969 Facebook non esisteva e i ragazzi, a quel tempo, facevano amicizia per corrispondenza. Si scrivevano lettere. Cominciò così la mia storia con Letizia, quel giorno di novembre dell’anno prima, 1968, quando decisi di scriverle. Lessi il suo annuncio nella rubrica della corrispondenza su Rolling Stone. All’epoca era la rivista più aggiornata e competente su tutto ciò che avveniva nel mondo della musica e che spesso parlava di Folk. Il genere musicale che adoro. Quel giorno mi cadde lo sguardo su quell’annuncio, molto semplice, ma che arrivò dritto davanti ai miei occhi come un presagio futuro: “Cerco amici appassionati di musica Folk zona New-York, Syracuse, Boston”. Non diceva altro ma per me non c’era bisogno di aggiungere nulla. 



Con quelle sue parole, aveva già detto tutto. Così le scrissi e lei fece con me la stessa cosa per due mesi. Poi, agli inizi di gennaio del ’69, lessi che Dave Van Ronk avrebbe suonato proprio a Syracuse, dove Letizia viveva, e la cosa mi parve ancora una volta il presagio di una strada futura, un segnale che veniva dal cosmo. Era la chiara indicazione di un appuntamento fissato dal destino e io non potevo mancare. Le scrissi subito. All’idea di quella possibilità mi prese una tale eccitazione, un desiderio di scriverle immediatamente, una febbre che non riuscii a trattenere. Non tornai nemmeno a casa. Nella mia sacca di cuoio avevo sempre qualcosa per scrivere, un taccuino su cui annotavo frasi e pensieri che apparivano d’improvviso nella mia mente. Non volevo perdere nulla delle mie emozioni, allora scrivevo sempre, ovunque mi trovassi. 



Quel giorno entrai in un bar e l’intera mia vita, girata sino a quel momento in una direzione, mi parve d’improvviso aver cambiato strada. Letizia mi piaceva, o meglio mi piaceva quello che diceva e raccontava. Mi parlava di questo suo desiderio di aprire un posto dove vendere dolci fatti in casa, libri di racconti e poesie e musica folk. Io non l’avevo mai vista, avevo solo una sua foto. Quando mi scrisse di questo suo desiderio, compresi immediatamente cosa spinge gli uomini come me verso certe creature: la dolcezza. Non mi serviva altro. L’idea di quel posto a metà tra una pasticceria, un negozio di dischi e una libreria, quell’insieme di queste tre cose che le conteneva tutte ma ne faceva una completamente nuova e diversa, mi catturò immediatamente. Poi un giorno mi scrisse un’altra cosa, e mi raccontò di una sua passione, quella di lavorare la lana ai ferri. Era una cosa normale nei paesi dell’Italia del Sud, disse, e aggiunse che era stata la nonna ad averle insegnato il segreto per imbastire lane colorate. Le piaceva fare maglioni e sciarpe calde per l’inverno, qualche volta una coperta. 

Questa notizia mi arrivò come un filo di sole sulla fronte. Sulla costa est degli Stati Uniti gli inverni sono durissimi e New York, dove vivo, è spesso un mantello di ghiaccio. Ma non era dal freddo che quella notizia mi riparava. Quella notizia mi teneva compagnia, era come se mi scaldasse ogni ora della mia vita. Teneva lontana l’inquietudine e faceva sì che vedessi il mondo come dal finestrino di un treno, con la pioggia e il fumo attaccati al cristallo ma, allo stesso tempo, con un senso di pace distante. Ero riuscito a trovare una presenza che viveva dentro di me come se fosse parte del mio stesso respiro e tutto, il mondo e le sue inquietudini, anche quel mio brutto vizio di bere che a lei non avevo mai raccontato, appariva diluito dal tempore che mi circondava dall’altra parte del vetro.

Così appena seppi che Dave Van Ronk avrebbe suonato a Syracuse, entrai in un bar dell’East Side e le scrissi una lettera di poche parole e due fogli. Sul primo scrissi il suo nome, Letizia, ai quattro angoli della pagina, poi, al centro, quella comunicazione che attribuivo ad una congiunzione astrale benigna: “Dave Van Ronk, Live at Jabberwocky Club, Syracuse University, NY.”. La data era quella del 18 febbraio 1969 e pure quella fu una suggestione che si aggiunse alle altre. 

Ho sempre creduto, e credo ancora, che ogni numero multiplo di tre porti in dote la buona sorte. Così presi il secondo foglio, riscrissi ai quattro angoli della pagina il suo nome, Letizia, e poi al centro una richiesta che parve quella di un naufrago che affida la sua ultima speranza alle onde: “Andiamo?”. Le scrissi solo questo, erano i primi giorni di gennaio del 1969, c’era un freddo terribile e le previsioni annunciavano a New York una bufera di neve. Così raggiunsi di corsa il primo ufficio postale e feci partire quella lettera con la posta assicurata. Sarebbe arrivata prima e poi volevo avere la certezza che venisse consegnata. 

Passarono i giorni e la bufera di neve, poi cominciò a piovere ininterrottamente. La mia cassetta della posta rimase vuota per giorni che divennero settimane e avevo perso ogni speranza. Continuavo a bere e più i giorni passavano e più bevevo per sciogliere quel dado di angoscia che avevo in mezzo al petto. Perché non ricevevo nessuna risposta? La risposta arrivò quando mancavano tre giorni al concerto. Era il 14 febbraio del 1969, San Valentino. Non ho mai capito, nemmeno adesso, se il Valentine’s Day, come lo chiamiamo noi qui in America, sia la festa delle coppie o quella degli innamorati. Istintivamente propendo per la seconda. L’amore cura, ma questo lo seppi molti anni dopo, ma fu quel giorno che cominciai a crederci.

La busta era di colore azzurro e dentro c’erano due cose: un foglio dello stesso colore col mio nome ai quattro angoli della pagina, Paul, e in mezzo solo una parola : “Si”. Poi, su un piccolo nastro giallo, un numero di telefono. Riscesi di corsa le scale che avevo appena salito, una corsa a mozzafiato giù dal quel monolocale in affitto dove vivevo nell’East Side. Proprio sotto casa c’era un bar di portoricani e lì un telefono per chiamare. Mi parve un’interurbana per il paradiso, fatta nell’aria satura di fumo e rum che hanno tutti i bar portoricani a New York. In quel momento non esisteva nulla, tranne le mie dita nel telefono e il rumore metallico del rollino che ad ogni numero portava indietro il quadrante. Poi il silenzio, lunghissimo, interminabile che precede l’aggancio della linea.

 

– Tuuu… tuuu … tuuu … 

– Pronto

– Pronto … buongiorno, Letizia?

– No, Letizia non abita più qui: ma chi parla?

– Paul, sono un amico. Chiamo da New York

– Si, certo … ciao Paul

– Ho avuto questo numero da Letizia …

– Letizia ha lasciato Syracuse, Paul: è tornata in Italia

– Ma … come? In Italia? Da quando?

– Da un mese.

– Da un mese? Ma io ho ricevuto una sua lettera, partita quattro giorni fa da Syracuse

– Si, l’ho spedita io tre giorni fa. Così mi ha detto di fare Letizia

– Non ho capito …

– Io sono la zia di Letizia. Lei, poco prima di partire, mi ha lasciato una lettera da spedire. Quella che hai ricevuto l’ho spedita io.

– Ma quando tornerà? Fra quattro giorni dobbiamo andare insieme ad un concerto …

– No, Paul. Letizia non tornerà.

– Come non tornerà …

– Tra un mese si sposa con un ragazzo del suo stesso paese

– Ah, ok … non lo sapevo. Ciao ..

– Ciao Paul.

 

Click. Il suono del ricevitore appena riagganciato mi parve quello di un legno secco spezzato sotto un scarpa. Così, allo stesso modo, con un suono netto e secco si era spezzato il mio sogno d’amore. Era durato una corsa di scale. Andai lo stesso a Syracuse, convinto chissà per quale misteriosa ragione che Letizia sarebbe apparsa al concerto di Dave Van Ronk. Era il 18 febbraio del 1969, un martedì. C’era un vento fortissimo fuori dalJabberwocky Club e io fui l’ultimo ad entrare. Letizia non venne e io non seppi più nulla.

Adesso sono passati più di cinquant’anni da allora. Esattamente cinquanta quattro. È il 18 febbraio del 2023 e sto percorrendo la strada che sale verso Montagano. Il paese è esattamente così come Letizia me lo aveva descritto. Una strada lunga di case a destra e a sinistra che finiscono in fondo a una piazza. Prima di arrivare c’è un piccolo cimitero con una strada che si apre tra le campagne e sale verso un poggio. Letizia è lì.

 A me è restato quel suo vecchio sogno: aprire un piccolo posto per vendere libri, dolci fatti in casa e musica folk e questo bootleg che stringo tra le mani. “Clouds”, si chiama così. “Clouds”, nuvole. C’è una foto di Dave Van Ronk fatta quel giorno del febbraio 1969 e la scritta: “Live at Jabberwocky Club – Syracuse, NY”. È un mattino pieno di sole, il cimitero è piccolissimo e dove dorme Letizia sono già cresciuti l’erba e i fiori. Sento lo stesso suono di quel giorno al bar dei portoricani. 

 

– Tuuu… tuuu … tuuu … 

– Pronto

– Pronto … buongiorno, Letizia?

– Sì, ciao, sei Paul?

– Si … sono io, sono molto felice di sentirti

– Anch’io lo sono … ma che ci fai da queste parti? Qui, a Montagano.

– Nulla … nulla Letizia. Sono venuto a trovarti … ti ricordi quel nostro concerto?

– Certo che me lo ricordo! Morivo dalla voglia di venirci con te.

– Davvero? Ma …

– Sì, lo so, ci sei rimasto male ma non è stata colpa mia … credimi; io non volevo …

– Non volevi sposarti?

– No … non volevo … ma lui mi ha presa … io non volevo; ci siamo dovuti sposare per forza.

– Chi ti ha presa, Letizia?

– Quello che poi è diventato mio marito. Mi voleva, da tempo, io no. Quella sera ero stata in pizzeria con un’amica e gli avevo parlato di te, di quanto fossi felice di vederti per il concerto di Dave Van Ronk. Lui mi però mi aspettava sotto casa … il resto te lo risparmio. Ma dimmi, Paul, tu come stai?

– Sono qui, davanti a te … mi sei mancata tanto

– Anche tu … ma dimmi, cosa hai fatto?

– Ho aperto un negozio nell’East Side a New York. Non mi sono più mosso da lì.

– Bello, un negozio: il mio sogno.

– Si, proprio il tuo, Letizia. Esattamente il tuo: libri, dolci fatti in casa e musica folk. Capisci …?

– Si … sei stato tanto caro a farlo, ma lo sapevo già. Da quando sono qui so tutto, però volevo sentirtelo dire.

– Mi fai sorridere se dici così …

– Si, sorridi, perché io qui ho scoperto una cosa. La scrisse tanto tempo fa un certo Lee Masters

– L’Antologia di Spoon River?

– Sì, proprio quella.

– E cosa scrisse?

– Scrisse che “Non ci sono matrimoni in cielo, ma c’è l’amore”. E io adesso so che è vero.

– Sì. Adesso lo so anch’io. A presto Letizia.

– A presto, Paul.