La quarta e penultima serata del festival di Sanremo è quella dove per tradizione chiacchiere e interventi esterni vengono contenuti al massimo per lasciare spazio alla musica o a quel che ne resta. O almeno ci si prova. I contributi extra sono agili e ben dosati soprattutto grazie alla verve di una Virginia Raffaele strepitosa nei panni di Belen o di un Brignano che percorre altre stanze e differenti punti di vista dei dibattutissimi rapporti affettivi – quelli padre/figlio – tra sussulti di comicità e visibile tenerezza.
La musica degli esordienti fa da apripista al piatto forte della serata. Sfilano il Mamhood di una Dimentica fortemente derivativa (Un po’ Ferro e parecchio della Survivor delle Destiny’s Child).
Gli altri non fanno granché meglio, ma tra questi il meno fastidioso rimane Francesco Gabbani che con la sua Amen sembra riesumare l’electro-sound primi anni ’80 di Visage su un testo che tenta la carta della profondità mascherata dall’ironia.
Pochissima cosa la filastrocca pop sul solito giro d’accordi di Chiara Dello Iacovo o l’Ermal Meta che con Odio le favole si attesta su sentimenti e giovanilismi giocati fino al fastidio totale.
La migliore rimane Miele. Inizialmente non prevista in scaletta ha ricantato, quale risarcimento sotto forma di velata riammissione, la sua Mentre ti parlo, confessione sul rapporto conflittuale con la figura paterna. La sua interpretazione tirata sulle tonalità alte questa volta ha convinto lasciandosi alle spalle le incertezze della prima sera.
Sfilano poi i campioni, inizialmente in rapida sequenza. Il Diluvio universale di Annalisa si conferma come una della cose migliori da un bel po’ di tempo a questa parte. Ingresso con accordi carichi di piano, arrangiamenti scuri e pieni di melodramma urbano, variazioni armoniche. Lei sempre più brava e intensa, raffinata e potente. Irrilevanti e irritanti gli Zero Assoluto. Di me e di te è marcetta pop di basso profilo riciclata dal bignami dell’ormai datatissima canzonetta d’atmosfera anni zero. Da parte sua il Rocco Hunt di Wake Up è il solito rap all’italiana finto impegnato infarcito di luoghi comuni, citazioni dei grandi in formato cartolina e giovanilismo ridotto a macchietta.
Una buona boccata d’aria fresca è l’Irene Fornaciari che con Blu rilascia una ballata semplice ma pensosa e un’interpretazione sobria ma piena di dignità nel puntare il proprio sguardo su quelle esistenze fuori dal mondo catapultate nel nostro mondo.
Il Sangiorgi perlopiù duro da reggere come cantante ha scritto in passato e bene per altri. Con la canzone del duo Caccamo / Iurato Via da qui offre un motivetto convenzionale per interpreti non meno convenzionali. Pappetta sanremese.
Tra le cinque proposte di autentica qualità l’Enrico Ruggeri de Il primo amore non si scorda mai.
Organo filtrato, accelerazioni rock classiche d’ordinanza per un juke-box virtuale delle sue tematiche ma di grande classe. Dallo scorso anno la scrittura ruggeriana è tronata a volare e continua a farlo. Una piccola e gradita sorpresa si sta rivelando Francesca Michielin. Nella sua Nessun grado di separazione troviamo una voce ancora in cerca di spessore ma espressiva con alcuni guizzi modulati di rilievo. Si intravede la strada di una profondità che un giorno potrebbe essere completamente alla sua portata. Sentimentale con un tocco di immaginifico.
Da bocciare senza appello gli Elio e Le Storie Tese di Vincere l’odio. L’ultima follia del vulcanico ensemble milanese è quella di far giocare in panchina Rocco Tanica. Voluta o meno, i lunghi anni di trovate alle spalle si fanno sentire e il gruppo sembra diventato prevedibile nella sua imprevedibilità. La formula della cosiddetta metacanzone mostra la corda in un pasticcio senza precedenti.
La Patty Pravo di Cieli Immensi disorienta. Pur con la scrittura di Zampaglione (Tiromancino) la voce ormai sembra completamente seduta, ormai quasi una smorfia vegliarda e gommosa nonostante l’aria di discreta classe fatta apposta per lei.
Le cose si fanno decisamente meno serie con l’Alessio Bernabei di Noi siamo infinito. Boy band senza band. Dear Jack e Bernabei separano le loro strade e raddoppiano la razione di pop giovanilista sul mercato, l’uno con un tipico sottoprodotto generazionale che si avvale di un ritornello con coretto di indubbio appeal radiofonico, gli altri con un grave surplus di svenevolezza. Giovanilismo e relativo carico di retorica risultano oltremodo fastidiosi.
Va poco meglio con il Neffa di Sogni e nostalgia. Canzone circense che si colloca tra Bregovic e saga Felliniana ma con una tipica declinazione pop contemporanea. Il ciondolare del nostro è un furbissimo anticlimax a tratti irritante ma dotato di una sua calcolata efficacia.
La premiazione delle nuove proposte vede Francesco Gabbani fare il pieno con un piccolo riconoscimento a Chiara Dello Iacovo. Sia il premio Mia Martini che il titolo di vincitore assoluto vanno a lui e alla sua canzone, tutto sommato quella più dignitosa tra quelle rimaste a contendersi lo scettro degli esordienti.
Si riprende con il Valerio Scanu di Finalmente piove. Impomatato e decorato, si produce nel suo ennesimo tour de force ultra-sentimentale cantato a squarciagola e con un’enfasi da festicciola adolescenziale. Siamo già all’usato sicuro.
L’ospitata di Elisa mostra una lezione di classe e di stile con la grande voce di Monfalcone che sacrifica il meglio del suo repertorio (quello in lingua inglese) sull’altare della più commestibile svolta italiana nel cui contesto si colloca anche il pur bel nuovo singolo dream pop No Hero.
Non male la Noemi di La borsa di una donna dove la nostra prova qualcosa di maggior spessore come raramente è dato trovare nel suo repertorio, la sua interpretazione ruvida e rugginosa ha una sua indubbia efficacia e pure la canzone ha calore e dignità.
Anche gli Stadio di Un giorno mi dirai sono protagonisti di una canzone sul rapporto padre-figlio, un pop-rock medio lento e sostenuto simile a molte altre loro cose avare di veri sussulti di repertorio, ma con una bella esecuzione di gruppo e un Curreri sempre valente interprete.
L’Arisa di Cuore conferma bravura d’interprete consolidata, un Anastasi da tempo saldo compositore di riferimento e una canzone che suona discreta e dignitosa pur senza impressionare.
Si scende a precipizio con il Lorenzo Fragola di Infinite volte. Il testo è un topos dell’amore che svanisce, l’interprete conferma mancanza di peso e numerose incertezze, la melodia più convenzionale non potrebbe essere.
Lontani dal loro meglio i Bluvertigo di Semplicemente. Per un Morgan che continua a scontare grosse difficoltà alla voce, ecco una canzone che si distacca dal repertorio elettronico tipico del gruppo per attestarsi su un pop a tinte retrò che non decolla nonostante i colori dell’arrangiamento.
Nel quintetto di qualità la Dolcenera di Ora o mai più. Tempo blues in forma di pop pianistico, reminiscenze soul-gospel. Buona scrittura, interpretazione avvincente, presenza vocale. In perfetta controtendenza alla sua recente svolta electro-pop.
Pessima chiusura con Clementino. Quando sono lontano esibisce uno dei tanti rapper in salsa nostrana che presentano invariabilmente le stesse caratteristiche. Popolano da cartolina, luoghi comuni centrifugati per una marcetta frizzante e futile come tante. Interpretazione ai minimi livelli.
In conclusione la sensazione complessiva della prova d’ascolto è quella di una sofferenza prolungata intervallata da rari ma sostanziosi momenti di sano godimento. In passato è andata pure peggio, ci si può dichiarare soddisfatti. La classifica parziale della quarta serata manda “all’inferno” i Bluvertigo, Neffa, Zero Assoluto, Dear Jack, Irene Fornaciari. Se Neffa, Dear Jack e Zero assoluto era abbastanza scontato rischiassero l’eliminazione, non così era per i Bluvertigo, risultato che è tutto da analizzare: chi ha tradito Morgan? Dalle stelle alle stalle? Irene Fornaciari ancora una volta non trova la sua audience, sarà l’ultimo Sanremo per lei?