Per celebrare i duecento anni dalla prima rappresentazione del Barbiere di Siviglia) (20 febbraio 1816, al Teatro Argentina), nonché il debutto della seconda opera romana di Rossini La Cenerentola (25 gennaio 1817), il Teatro dell’Opera ha messo in scena un nuovo allestimento della seconda delle due opere (ne abbiamo parlato il 26 gennaio su questa testata) e ha programmato addirittura tre allestimenti per la prima e più nota- uno nella sala maggiore (Il Teatro Costanzi), uno nella stagione estiva alle Terme di Caracalla, ed uno (ridotto) in un camion che stazionerà in varie piazze della città, nonché di Palermo (che co produce l’avventura). In un’intervista nel programma di sala, il regista, Davide Livermore, afferma di essersi ‘spaventato’ quando gli è stato offerto l’incarico del primo dei tre allestimenti. Ne aveva ben donde.



Registi più affermati di lui, nel Tempio Rossiniano di Pesaro avevano fatto cilecca, per avendo il miglior intento di essere sia rispettosi sia innovativi: Luigi Squarzina che nel 1992 ha ambientato l’opera nel lugubre gabinetto di anatomia dell’Archiginnasio di Bologna e Luca Ronconi che nel 2005 fece ‘volare’ attrezzeria e qualche personaggio dentro qualcosa a metà tra una gabbia ed una prigione. Tra i grandi nomi della regia, solo Ponnelle nello spettacolo del 1975 alla Scala (più volte ripreso) si accostò al Barbiere con grandissima umiltà nella consapevolezza  che la combinazione del genio di Rossini, di Sterbini e di Beaumarchais  non necessitava altro che il libretto, la partitura e quel po’ di ‘disposizioni sceniche’ dell’epoca ancora disponibili (ed ovviamente un’orchestra e cantanti all’altezza) per assicurare il successo.



Il Barbiere di Rossini è una delle quattro grandi commedie in musica del periodo tra la fine del settecento e quella dell’ottocento –  in compagnia di altri tre capolavori come Le Nozze di Figaro di Mozart , I Maestri Cantori di Norimberga di Wagner e Falstaff di Verdi – anche perché basta seguire le intenzioni degli autori per fare un grande spettacolo.

Davide Livermore (responsabile di regia, scene e luci) ed il suo team di costumisti (Gianluca Falaschi), illustrazioni (Francesco Calcagnini), video (D-Work) ed effetti speciali (Alexander) hanno presentato una sintesi di interpretazioni negli ultimi duecento anni sia della commedia di Beaumarchais (nei suoi contenuti rivoluzionari) che dell’opera buffa di Rossini: dalla ghigliottina ai televisori a rate di qualche anno fa, passando per il periodo della prima guerra mondiale. Non tutto è malvagio; ad esempio, il bianco e nero (un omaggio al Ponnelle non de Il Barbiere ma de Le Cenerentola) della scena e dei costumi sono un’ottima idea.



E così anche alcune gag (ad esempio, Rosina che danzicchia a tempo di Charlestone nella sequenza ambientata del 1917). Altre hanno fatto ridere il pubblico a crepapelle. Una trovata ingegnosa (per le voci) quella di fare svolgere gran parte dello spettacolo nella parte centrale del vasta palcoscenico tra tre pareti di una casa, che diventa una scatola sonora rivolta al pubblico) Ma dopo il primo atto, ci sono stati i primi ‘boo’ diventati una mitragliatrice quanto regista, costumista ed autori di proiezioni ed effetti sociali sono venuti a salutare il pubblico. Un vero peccato perché il Teatro dell’Opera di Roma è in veloce ripresa e collezione una serie di ‘tutto esaurito’.

Indubbiamente, il pubblico romano, specialmente quello delle ‘prime’, è tradizionalista. Ma l’allestimento scenico, affollato di mimi, ghigliottine, aeroplani e televisioni acquistate ‘a rate’, rendeva l’opera non buffa ma grottesca, anche a ragione di scelte non condivisibili, quali quella di mostrare Don Bartolo come un vecchio in carrozzella (è , invece, un cinquantenne voglioso di impalmare la pupilla non solo per denaro ma anche per goderne sotto le lenzuola) ed un Don Basilio con una protesi al braccio destro. Inoltre, gran parte dell’opera pare svolgersi sotto una coltre di nubi. Nulla da dire della recitazione, molto curata.

Non so se nelle prossime repliche si possano fare aggiustamento: è il concetto stesso di presentare una sintesi di due secoli di allestimenti a non reggere. Buona parte del pubblico (bastava ascoltare i commenti nel foyer durante l’intervallo) non se ne è reso conto : era andato a teatro per divertirsi con un lavoro noto ma leggero e si è trovato la rivoluzione francese, medaglioni di dittatori (tra cui anche Stalin e Mussolini), un topo  che attraversava il palcoscenico , teste tagliate (anche ad Almaviva il quale se la ri-incolla) ed un palcoscenico  spesso affollato da mimi.

La serata è stata salvata dalla parte musicale. Ed infatti, maestro concertatore (un veterano come Donato Renzetti), orchestra e solisti hanno ricevuto calorosi applausi sia a scena aperta che alle ‘chiamate’ finali. I complimenti vanno soprattutto ai due giovani protagonisti: Chiara Amarù (una deliziosa Rosina già acclamatissima in un bel Barbiere low cost allestito, al Rossini Opera Festival di Pesaro nel 2014  dall’Accademia di Belle Arti di Urbino) e Edgardo Rocha (un Almaviva il quale ha affrontato l’impervia aria finale Cessa di più resistere che solo pochissimi tenori del rango di Floréz e Gatell, osano affrontare). 

Anche Figaro viene dai giovani di quel bellissimo spettacolo pesarese: Florian Sempey, ineccepibile nel canto (specialmente nel fraseggio) ma poco brillante nella recitazione, pure perché in costumi goffi. Con loro  un pilastro  di grande esperienza come Ildebrando D’Arcangelo (Don Basilio) e una specialista rossiniano e donizettiano come Simone del  Savio (Don Bartolo). Di livello Eleonora De la Pena nel ruolo di Berta.