50 anni sono un bel pezzo di storia. Per dire, dai tempi di Gesù ai giorni nostri sono un periodo che si è ripetuto 40 volte. Dall’epoca di Beethoven solo 4 e mezzo. Quindi per una band poter vantare un simile periodo di carriera insieme è davvero onorevole. Ma cominciamo questa analisi leggera con una specie di pars destruens: dicono alcuni testimoni di aver assistito a liti furibonde e addirittura azioni legali per delle irregolarità nel numero di inquadrature televisive. Altri pettegoli affermano che i membri della band siano amici solo di facciata, davanti alle telecamere ed ai giornalisti, mentre nella vita privata poco ci manca che si scannino a vicenda.
Avrete capito che stiamo parlando dei Pooh, la band più longeva della musica italiana, che ha appena annunciato l’ormai prossimo ritiro dalle scene, che dovrebbe avvenire a giugno dopo due concerti d’addio, uno previsto a Milano e l’altro a Roma. Peraltro è ancora fresca la loro esibizione in qualità di super-ospiti al Festival di Sanremo, qualche giorno fa.
Stiamo parlando di una vera e propria macchina da guerra, una azienda tutt’oggi florida e che nei tempi d’oro probabilmente fatturava quanto il Liechtenstein, o forse più. Non dimentichiamo che i Pooh, oltre a sfornare una serie invidiabile di grandissimi successi (ma ci torneremo), sono stati fra i primi ad introdurre una serie di novità importanti nell’ambito del music business. Innanzitutto, già nei primi anni ’70 incominciarono a curare i loro show dalla A alla Z, occupandosi in prima persona, oltre che della musica da suonare e degli strumenti personali, anche di impianto di amplificazione, light-show e merchandising. Nel 1978 furono i primi in Italia ad usare la tecnologia laser. E via via la loro capacità imprenditoriale crebbe, fino a creare un vero e proprio ‘Palazzo della Musica’, come lo chiamavano, uno stabile che conteneva tutte le attività della filiera musicale che servivano alla produzione di un album e di tutto il suo indotto: dalla sala d’incisione iper-tecnologica all’archivio storico; uffici, magazzini per strumenti, scenografie, palchi, TIR e tutte le strutture dei live.
Ma lasciamo la holding e consideriamo gli aspetti artistici. Perché ve ne sono (o ve ne sono stati, per lo meno) e consistenti. Innanzitutto prima di essere considerati una delle punte di diamante del pop commerciale, i Pooh hanno scritto una serie di canzoni su temi parecchio scottanti, anche il tempi non sospetti. Già con il loro brano d’esordio Brennero ’66 incapparono nella censura RAI, e poi dedicarono molte canzoni a temi scomodi o non ancora sdoganati, specialmente nell’arco degli anni ’70. Secondo aspetto, siamo di fronte a dei signori musicisti, in particolare Dodi Battaglia è sempre stato valutato – talvolta storcendo il naso – come uno dei migliori chitarristi elettrici italiani, capace anche di gettarsi in alcuni side projects con altri chitarristi senza sfigurare. E poi i Pooh sono stati fra quelle realtà musicali che, introducendo alcuni ingredienti non convenzionali, contribuirono a creare un sound nuovo per la musica italiana. Insieme a Lucio Dalla (con gli Stadio), De André (con la PFM) e Pino Daniele (soprattutto con la sua band storica De Piscopo-Zurzolo-Amoruso-Senese) i Pooh si sono inseriti in quell’onda che inseriva rock, jazz e fusion – come si diceva allora – nella sintassi delle canzoni italiane.
Detto tutto questo, dopo 50 anni i Pooh vanno in pensione. Sarà vero? Non è escluso che alcuni passi siano studiati da una attenta strategia di marketing, come il ritiro, qualche tempo fa, del batterista Stefano D’Orazio, prontamente tornato dietro ai tamburi per questo gran finale insieme al transfugo della prima ora Riccardo Fogli. Ci sono poi altri segnali contraddittori: a settembre Francesco Facchinetti (figlio del cantante e tastierista Robi – ma lo sapete tutti per The Voice…) si sposerà, e pare che i Pooh suoneranno anche lì. Chi vivrà vedrà.
Quello che è certo è che l’esibizione sanremese – in pompa magna e strapagata – è stata davvero deludente. Nessuno suonava davvero, sostenuti dall’orchestra del Festival, appositamente tenuta al buio (che tristezza questi trucchetti televisivi) e le performance vocali sono state a tratti imbarazzanti. Per un gruppo che ha fatto di arrangiamenti possenti e voci tirate allo stremo e ben armonizzate il proprio marchio di fabbrica, una situazione del genere è piuttosto triste. Non sempre voler fare i supergiovani paga, anzi talvolta il tentativo si tinge di grottesco.
Chi sono io per consigliare cosa sarebbe stato meglio fare ad una band che ha scritto pagine indelebili del rock romantico-sentimentale-vagamente progressivo degli ultimi 50 anni? Vederli in azione sul palco di Sanremo mi ha riportato alla mente l’unica volta che li vidi dal vivo, in tempi in cui non esistevano computer, sequencing, parti doppiate, strumenti aggiunti anche dal vivo, auto-tune e tutti gli artifici che si usano oggi per fare il maquillage ad una musica che forse un po’ meno perfetta suonerebbe meglio…
Avevo 13 anni ed era uno dei miei primi concerti dal vivo, estate, una piccola arena all’aperto sulla riviera marchigiana. Era stata un’esperienza unica, musicalmente alta, soprattutto intensa e vera. Nello stesso luogo avrei rivisto da lì a un paio d’anni anche i Rockets (sic) e la Premiata Forneria Marconi, tutti concerti straordinari e di grande impatto. Allora.
Viene da paragonare questa parte presumibilmente finale di carriera dei Pooh a quella di altri grandi vecchi della canzone italiana, ed in particolare all’imminente tournée annunciata dai due capitani coraggiosi, Baglioni e Morandi. Beh, una certa differenza c’è, ed oltre alla tenuta ed al valore assoluto delle voci, credo che il grosso stia – pur in una comune operazione nostalgia (incidentalmente, gli Stadio non hanno vinto a mani basse per questo?) – in una maggiore attualità e pregnanza presente dei due capitani rispetto alla band che dà continui addii restando sempre lì.
D’altronde non esiste una legge – se non quella del buon senso, merce rara oggidì – che imponga o suggerisca “da consumarsi preferibilmente entro il”. Quella va bene per gli yogurt. Che non è il nome di una band.