Anche se Bob Dylan dice che “nessuno canta il blues come Blind Willie McTell”, il disco tributo che esce a fine mese è dedicato a un altro bluesman cieco, Blind Willie Johnson. In realtà un disco tributo a Bllind Willie McTell non è mai stato fatto, forse perché la canzone omonima di Bob Dylan è già un tributo insuperabile e straordinario. In ogni caso Dylan non fa parte della schiera di grandi artisti che appaiono in questo “God Don’t Never Change”, gente come Tom Waits, Sinead O’Connor, Lucinda Williams, Derek Trucks con la moglie Susan Tedeschi, Cowboy Junkies, Blind Boys of Alabama, Rickie Lee Jones, Maria McKee.

Come quasi sempre nei dischi che pagano tributo a un artista di colore, anche qua abbiamo solo artisti bianchi con l’eccezione dei leggendari Blind Boys of Alabama (quelli che ancora sono vivi). Da decenni gli afroamericani non si interessano più al blues, la musica da loro inventata e che è alla base stessa del rock’n’roll, dimenticata per robe facili e dall’appeal commerciale come l’hip hop. Non solo non lo suonano più, non vedrete neanche un afro americano a un concerto blues.

L’importanza invece che questa musica ha avuto sin dai primi anni 60 per più generazioni di ragazzi bianchi invece è sempre vivissima,  come dimostra questo disco (anche se di ragazzi a parte il relativamente giovane Luther Dickinson non ce ne sono).

Blind Willie Johnson è poi un blues man sui generis, come indica il titolo della raccolta. Di fatto, a differenza di colleghi come Robert Johnson che amavano vendere l’anima al diavolo in cambio del successo e della capacità di suonare il blues, lui preferiva il gospel, seppure quello di matrice blues. Era un autentico predicatore della parola di Dio. Ovviamente anche il gospel, quello degli afro americani, fa parte delle radici fondanti del rock’n’roll.

Johnson fa parte della prima generazione di bluesmen che ebbero la possibilità di incidere. Tra il 1927 e il 1930 registrò 29 pezzi per la Columbia Records e come i colleghi di quella generazione, si accompagnava unicamente con una chitarra acustica, suonata in stile bottleneck (secondo alcuni invece del classico ditale di acciaio usava la lama di un coltello) e talvolta con la prima moglie alla seconda voce. Nessuno sa perché dopo queste incisioni Johnson non abbia più registrato niente, anche se il motivo è facilmente ipotizzabilie. Gli illuminati discografici bianchi che andavano alla ricerca di questi musicisti pagavano loro pochi spiccioli. I dischi di Johnson tra l’altro furono tra i più venduti del cosiddetti mercato della “race music”, la musica incisa da musicisti di colore destinata esclusivamente a un pubblico di colore. Ma a quei tempi i diritti d’autore non esistevano. Peraltro, a differenza di Robert Johnson, di Blind Willie esistono anche immagini cinematografiche.

Morì giovane, a soli 47 anni, per una polmonite contratta date le sue condizioni di estrema povertà. La sua abitazione era andata distrutta a causa di un incendio e lui si ridusse a dormire in mezzo a quelle rovine fino ad ammalarsi. Non fece in tempo dunque a essere riscoperto come tanti altri durante il folk revival di fine anni 50, primi anni 60, altrimenti chissà quante altre gemme ci avrebbe regalato. Per tutta la vita aveva suonato e predicato i vangeli per le strade e scritto brani straordinari, ripresi nei decenni da tanti artisti. It’s Nobody’s Fault but Mine ad esempio è stata ripresa fra gli altri da Nina Simone, John Renbourn, Ben Harper, Tom Jones; Motherless Children da Eric Clapton, Steve Miller, Bob Dylan, Ritchie Havens; il tema musicale di Dark Was the Night ha ispirato la colona sonora del film Paris, Texas di Ry Cooder.

Blind Willie Johnson rappresenta l’altra parte della musica nera del periodo fra le due guerre. Se Robert Johnson era il dannato, cantore in metafora del razzismo, della povertà estrema, dell’esclusione sociale di tutti i neri d’America e del sesso come via di fuga a questa sofferenza, malessere che lui dipingeva in modo straordinariamente efficace come se avesse un demonio sulle sue tracce, Blind Willie cantava Dio e la ricompensa che attendeva in Paradiso gli stessi neri di cui aveva cantato il suo collega. Offriva redenzione e speranza, ma non a buon mercato, anzi. Era quasi brutale nel suo modo di esprimersi, maledettamente sincero perché consapevole della sofferenza del suo popolo. Lo si capiva dal modo pauroso di cantare che aveva, un falso basso che poteva gelare il sangue nelle vene. Come Robert Johnson terrorizzava con le sue immagini infernali, così Blind Willie faceva altrettanto predicando che la salvezza si conquistava sputando il sangue.  

Il suo approccio musicale erablues, ma si era sempre rifiutato di cantarlo dal punto di vista lirico, diventando così uno dei massimi esponenti del gospel blues (diverso dal gospel classico, perché eseguito da un solista con la chitarra e soprattutto perché tecnicamente era blues). Peccato e redenzione, quelle due facce che compongono l’anima dell’uomo, così straordinariamente espresse in modo carnale e umano da questi musicisti appartenenti a un’epoca ormai persa nelle nebbie della memoria.

Johnson (rimasto cieco a 7 anni di età quando in una lite con il padre la seconda moglie gli gettò addosso per sbaglio dell’acido) è stato uno dei più incisivi cantanti dell’epoca oltre a uno dei maggiori esecutori dello stile bottleneck. Uno stile nervoso il suo, incisivo e sferragliante, con un purissimo senso del rock’n’roll a venire.

Conservare ed esaltare l’anima gospel di queste canzoni è quanto fanno straordinariamente bene tutti gli artisti qui raccolti. Ognuno esprime a suo modo il debito e la riconoscenza per queste magnifiche canzoni, ognuno ha ben incisa nell’anima la stessa sofferenza esistenziale dell’autore. Ognuno è peccatore e ognuno anela alla salvezza. Lo si capisce ascoltandoli. Il motivo? Queste canzoni “corrispondono”, cioè dicono di noi più di quanto noi siamo capaci di fare.

Tom Waits presenta due brani: The Soul of a Man e John the Revelator. Il primo è rispettoso, affettuoso, quasi intimidito rispetto al cantante dissacrante ed esagerato che siamo soliti ascoltare nei suoi dischi. Il secondo brano invece è una esplosione di energia e passione, un lamento voodoo, come se Blind Willie Johnson e Robert Johnson si incontrassero a quel crossroad, quel crocicchio, a discutere da che parte andare, se all’inferno o in paradiso.

Anche Lucinda Williams presenta due pezzi, tra quelli più ripresi nel tempo, It’s Nobody Fault but Mine in una versione elettrica degna del più classico british blues degli anni 60 e quello che dà il titolo alla raccolta con un inquietante inizio a cappella. Le cose migliori arrivano dopo una bella ma innocua Keep Your Lamp Trimmed and Burning della coppia, artistica e nella vita, Dereck Trucks e Susan tedeschi.

Sono i Cowboy Junklies ad alzare di molto l’asticella del gradimento con una terrificante Jesus is Coming in cui si sente anche la voce dell’autore. Un brano destabilizzante, etereo e noise allo stesso tempio, una sorta di ascensore diretto all’inferno in cui si cerca di cambiarne la direzione.

I Blind Boys of Alabama, e non poteva essere altrimenti, sono stellari nella loro esecuzione di Mother’s Children Have a Hard Time, conosciuta anche come Motherless Children. Un pianoforte stile New Orleans batte il ritmo in modo incantevole mentre le loro voci sbucano fuori da un tempo immemorabile. Carismatici, a metà tra dopo wop e spiritual, danno una lezione di canto stratosferica.

Sinead O’Connor mette dentro la sua usale urgenza e ansia sfociando in un clapping di rara potenza conTrouble will sono be over, mentre il bravo Luther Dickinson con la Rising Star Fife & Drum Band ci conduce in una festa in un campo di cotone conservando la gioiosa speranza di Bye and Bye I’m Going to see the King

La sempre deliziosa Maria McKee come sua caratteristica mette irrefrenabile ottimismo in Let Your Light Shineaccompagnandosi con una sola chitarra acustica trasportandoci al tempo delle marce per i diritti civili con l’innesto di uno strepitoso coro botta e risposta, impossibile stare fermi.

Il disco si conclude con la performance più inquietante, ma anche più bella. Rickie Lee Jones, che di inferno e paradiso sa molte cose, si esibisce in una spettrale e lancinante Dark Was the Night-Cold Was the Ground. La sua voce ondeggia fra tenebre e purezza, dietro di lei i fiati di una marcia funebre. D’altro canto siamo in un cimitero, c’è una tomba davanti a lei, che potrebbe essere la sua stessa tomba. Le tenebre stanno per chiudersi sulla cantante, tutto è oscurità, la terra che ospita le spoglie mortali è fredda, troppo fredda. Il canto si eleva nella notte come un ululato agghiacciante, il lamento del dolore è insostenibile. Chiudendo il disco con questa performance trascendentale, ci si chiede dov’è la risposta a tutto questo tumulto che abbiamo appena ascoltato, che cosa è la morte, dov’è la salvezza. Da qualche parte, in un crocicchio alle porte del paradiso, Blind Willie Johnson sta sorridendo. Con lui c’è anche Robert Johnson. Vendere l’anima al diavolo non era poi un grand’affare.