Generalmente, quando guardiamo il cielo sopra alle nostre teste (quei pochi che ancora alzano lo sguardo sopra di sé), quando ci sforziamo di concepire l’universo intorno a noi, l’immagine che ci viene in mente è un immenso mare nero, una oscurità fatta di silenzi siderali.

In realtà l’universo esprime dei suoni, da tempo gli studiosi sono arrivati a queste conclusioni e da tempo si cerca di tradurre questi suoni in un linguaggio musicale, una sorta di traduzione da una lingua sconosciuta nel linguaggio che è quello più semplice e quello che accomuna gli esseri viventi da sempre, la musica, sorta di esperanto dell’anima.



La Nasa lo ha già fatto in passato, collaborando con esperti musicisti a questa traduzione. Dopo la recente scoperta della conferma della teoria di Einstein sulle onde gravitazionali, che ci ha fatto saltare tutti in piedi ad applaudire anche se non abbiamo capito granché di cosa si tratti, l’esperimento è stato ripetuto.



Arthur Jeffes, musicista che fa parte del gruppo di musica sperimentale Penguin Café Orchestra, insieme agli astrofisici Samaya Nissanke e Jean Michele Desert (del team di scienziati che ha idividuato le onde gravitazionali), ha composto una sinfonia chiamata “Black Hole 5.0 ©epc ltd 2016”, un campionamento del suono delle onde gravitazionali ottenuto applicando un complicato algoritmo a un campionamento elettronico midi. L’esperimento fa parte di un progetto multimediale più grande (a questo link trovate ogni dettaglio compresi alcuni link audio) che utilizza anche video, per dare alle persone la possibilità quantomeno di immaginare e di intuire visivamente e tramite audio, quello che accade quando si producono le suddette onde gravitazionali.



Quello che si ascolta in realtà è piuttosto deludente. “Gli unici suoni utilizzati sono quelli del pianoforte, degli archi e delle onde gravitazionali, la linea del piano viene dal mapping della curva di collisione tra Neutron Star / Neutron Star trasformata in midi” ha commentato Jeffes. In un caso sembra di ascoltare una sorta di trip dance, quelle musichette che si usano in discoteca per diluire lo stress causato dall’esposizione a musiche elettroniche martellanti, una sorta di lounge elettronica new age. In un altro caso si ascolta una linea di pianoforte che gli autori del progetto definiscono “fortunatamente ottimistica”, come se la paura era che il suono dell’universo fosse qualcosa di minaccioso e cattivo. Quello che colpisce in tutti i casi è la base dei brani, un battito ritmico appena accennato di sottofondo che assomiglia al battito di un cuore. Il grande cuore dell’universo che detta il ritmo a tutto l’infinito? Potrebbe essere.

Quello che piuttosto vale la pena sottolineare di questo esperimento, è il rinnovarsi di qualcosa che costantemente si ripete da quando l’uomo esiste. Aldous Huxley, l’autore de “Le porte della percezione”, diceva che “il bisogno di fuga, di trascendere noi stessi anche se solo per pochi momenti, è sempre stato uno dei desideri principali dell’anima”. Probabilmente il desiderio maggiore, perché nessuno, se è onesto, sente di bastare a se stesso. Cercare di definire in suoni questo desiderio è quello che l’uomo ha fatto da sempre, prima e oltre ogni cosa. Nel suo libro “La musica primitiva”, lo studioso Marius Schneider, sosteneva che ogni popolazione da sempre ha nel suo dna la concezione che l’universo sia stato creato da un suono “divino e primordiale”, di come l’uomo sia essenzialmente una”essenza sonora” e di come questo suono primordiale rimanga nella coscienza di ognuno come un ricordo antichissimo che malinconicamente ci rimanda alla nostra natura più intima e allo stesso tempo universale.

Questo ricordo ha fatto sì che l’uomo cercasse di recuperare quel suono originale che ha lasciato una ferita dentro di lui, e per far questo ha usato quello che di più potente aveva, la voce. “La voce è l’uomo, il canto è l’anima o il veicolo dell’anima. Dal momento che l’uomo è nato dal suono, la sua essenza sarà sempre sonora (…). La canzone individuale è una melodia che esprime il ritmo individuale di una persona. E’ conosciuta da tutti, ma in linea di massima può essere cantata soltanto dal suo proprietario”.

Ecco allora che esperimenti come quello citato all’inizio sono interessanti e piacevoli, ma non sarà mai un algoritmo matematico creato nel freddo di un laboratorio a rintracciare quel suono dell’universo perduto e che la nostra anima anela di ritrovare. Fino a quando esisterà un uomo sulla Terra, sarà la sua voce a esprimere questa malinconia insostenibile. Che sia la voce di un bambino che ripete la canzoncina sentita dalla mamma, o quella di un bravissimo tenore o quella piena di rabbia di un cantante rock, ogni uomo è un io irripetibile e unico che, seppur simile nel desiderio a tutti gli altri, ha dentro di sé la sua voce che solo lui può esprimere. Un cantante sale sul palco e canta la sua canzone. Che è solo sua, eppure magicamente entra in contatto con l’io di ogni singolo spettatore. Non c’è algoritmo più potente e misterioso di questo, l’algoritmo del cuore.