L’anno in corso si sta rivelando impietoso per le grandi glorie del rock. Era scomparso Lemmy a dicembre, poi David Bowie a gennaio, poi ancora Glenn Frey, poi, appena pochi giorni fa, Paul Kantner dei Jefferson Airplane. 

Così concentrati nel tempo, a breve ridosso l’uno dall’altro fa senza dubbio più impressione, ma è la legge della vita: si invecchia, si muore, è così da sempre. Gli artisti che amiamo sono con noi da decenni e non sono immortali, semplicemente abbiamo cominciato a realizzarlo. 



Giovedì sera, al Fabrique per il doppio concerto di Foals ed Everything Everything, ho cominciato ad accorgermi che forse abbiamo ancora qualche speranza. 

I gruppi giovani crescono, per fortuna. In un panorama di meteore, di dischi fatti in fretta, di band che durano giusto lo spazio di un paio di singoli, di un numero massiccio di artisti che affolla il sottobosco dell’underground alla ricerca dell’occasione della vita, a poco a poco si sta creando anche qualche punto fermo. 



E’ presto e forse è anche totalmente inutile mettersi a fare confronti con i grandi del passato, semplicemente perché i grandi del passato sono stati grandi proprio perché irripetibili.

Ma il rock contemporaneo, nella sua eterna diatriba tra nostalgici a tutti i costi e appassionati integralisti di tutto ciò che è all’ultimo grido, sta offrendo ben più di un motivo per rimanere soddisfatti. Cosicché, io credo, tra una decina o una quindicina d’anni, quando tutti ma proprio tutti saranno scomparsi definitivamente, potremo pur sempre dire che varrà ancora la pena di ascoltare musica. 



I Foals sono una di queste ragioni. Hanno esordito pochi anni fa, nel 2008, sono ancora una band giovanissima ma hanno alle spalle quattro dischi di cui gli ultimi due acclamati in maniera esagerata. “What Went Down”, il loro ultimo lavoro, non è entrato per pochissimo nella lista dei miei 25 dischi preferiti del 2015 ma mi ha comunque regalato momenti piacevolissimi. 

La loro musica ha tutti gli ingredienti per attraversare più generazioni: ha profonde radici Post-Punk (una band come gli XTC è forse il riferimento che è stato più tirato in ballo dalla critica) ma sa interpretare tutto in chiave moderna (“What Went Down” è stato prodotto da James Ford, che ha lavorato anche con gli Arctic Monkeys), flirtano con l’elettronica e il Funk e sanno pure toccare le corde dell’emozione con alcune ballate di notevole intensità. Se ci aggiungiamo un frontman carismatico ed energico come Yannis Philippakis ed un amalgama strumentale non comune, si può facilmente capire come mai i britannici stiano raccogliendo tutti questi consensi. 

Saranno headliner al festival di Reading e al BBK di Bilbao, vale a dire due tra gli appuntamenti musicali più importanti di quest’estate: serve altro per dire che stiamo assistendo ad un bel ricambio generazionale? 

Ad ogni modo, se tutto questo non servisse, ci pensa il pubblico a dare un ulteriore elemento di argomentazione: quando arriviamo sul posto il Fabrique (che al momento credo sia il locale più capiente che c’è a Milano) è ancora mezzo vuoto ma proprio quando stavamo ragionando su un possibile flop della serata, nel giro di pochi minuti si è riempito in ogni ordine di posti, soprattutto di giovani e giovanissimi. Sinceramente, non pensavo che questa band godesse di così tanti consensi nel nostro paese. 

In apertura ci sono gli Everything Everything e non si tratta di un semplice gruppo di supporto. Il quartetto (dal vivo sono in cinque) viene da Manchester e già questo basterebbe a farci drizzare le antenne. Hanno realizzato tre dischi di cui l’ultimo, “Get To Heaven”, è uscito a giugno e, almeno in patria, ha fatto faville. Me ne avevano parlato in toni entusiastici ma non avevo avuto tempo di approfondire il discorso. 

Nel giro di un paio di canzoni mi hanno spazzato via. Il loro è un genere indefinibile che ha forse nei Talking Heads di “Remain in Light” il riferimento che riesco a cogliere con più facilità ma che in realtà contiene mille e più sfumature che, a partire dall’Art Rock di cui era ammantato l’esordio “Man Alive”, passano dal Funk, al Reggae, alla Dance, al Pop più colorato e smaccatamente commerciale.

Sul palco, è una danza coloratissima portata avanti a ritmo indiavolato, con il cantante e chitarrista Jonathan Higgs a fare da mattatore, supportato adeguatamente da un collettivo di musicisti rodato e affiatato, su cui spicca il bassista Jeremy Pritchard. 

Nessuna pausa, nessun cedimento, i 45 minuti del loro set risultano tirati al massimo e benché i pezzi non siano per nulla lineari, il coinvolgimento è totale ed è impossibile stare fermi. 

Il nuovo album la fa comprensibilmente da padrone e un singolo come “Regret” sembra decisamente di proporzioni gigantesche. Solo due gli estratti dal secondo disco “Arc” ma sono di quelli che non ti dimentichi: la funkeggiante ed esplosiva “Kemosabe “Cough Cough”, che è tra i brani di più alto valore di quel disco, anche questa sorprendente per la carica irresistibile e per l’uso intelligente e non banale dei cori. 

Il pubblico si diverte e partecipa piuttosto attivamente, qualcuno dimostrando anche di conoscere bene i pezzi. 

Come detto, non un semplice supporto ma la scoperta di una band che in futuro, se continuerà su questa strada, potrebbe diventare davvero grande. 

Rapido cambio palco e tocca ai Foals far vedere di che pasta sono fatti. I cinque inglesi vengono accolti da un boato assordante mentre la terremotante “Snake Oil” non fa prigionieri e scatena un rovinoso pogo. 

La successiva “Mountain At My Gates” è molto più cadenzata e ruffiana, tutti cantano in coro e l’atmosfera si fa davvero incandescente. 

Dal vivo non li avevo mai visti ma tutto quello che mi era stato su di loro si è rivelato vero: sul palco sono un’autentica macchina da guerra, sono precisi ed inarrestabili, sapientemente guidati da uno Yannis Philippakis che, se può apparire piuttosto freddo e distaccato, in realtà non risparmia le energie e si dimostra un vero trascinatore. 

Per quanto riguarda la setlist, non sembrano avere particolari obblighi promozionali da assolvere: l’unico disco trascurato risulta essere “Total Life Forever” (forse perché stilisticamente piuttosto diverso dagli altri tre) anche se il crescendo intensissimo di “Spanish Sahara” sarà una delle cose più belle della serata. Per il resto, “Holy Fire” e “Antidotes”, rispettivamente terzo e primo disco del gruppo, ricevono un trattamento equo e risultano ben rappresentati. In particolare, “My Number”, provoca un bel pandemonio e fa capire come i Foals, in quanto autori di canzoni che sappiano coinvolgere ma che abbiano nello stesso tempo una costruzione intelligente, siano decisamente ad un livello alto. 

Purtroppo al termine di “Balloons”, dopo cioè solo cinque pezzi e poco più di venti minuti dall’inizio, il gruppo lascia incomprensibilmente il palco. Seguono dieci minuti di break durante il quale i tecnici si affannano attorno alla strumentazione, cosa che fa intuire ci siano stati alcuni problemi di impianto; problemi che, francamente, nessuno poteva immaginarsi, visto che fino a quel momento il concerto stava andando alla grande e la prestazione della band era stata maiuscola. 

Al rientro on stage Yannis si avvicina al microfono e in tono un po’ rabbioso dice semplicemente: “Facciamolo, c….o!”, cosa che mi ha fatto pensare che per qualche momento avessero considerato di non riprendere a suonare. 

Ad ogni modo, l’interruzione ha tolto forse continuità alla performance ma non l’ha certo fatta calare in intensità. Il ritmo ogni tanto rallenta ma pezzi come “London Thunder” o la tormentata “A Knife in The Ocean” (“Una canzone che parla della fine del mondo”, ha detto Yannis introducendola) impediscono letteralmente di tirare il fiato. 

Chiude una “Inhaler” strepitosa, senza dubbio il brano più rappresentativo di quello che sono i Foals al momento, eseguita con un accento hard più marcato, soprattutto nelle chitarre e nell’interpretazione vocale. 

I bis si aprono con la mazzata di “What Went Down”, dove sembra quasi giochino a fare il gruppo metal e a quel punto il singer lascia andare l’atteggiamento tutto sommato controllato che aveva tenuto per l’intero show e dopo aver urlato più volte a musica interrotta le parole del ritornello (“Give Up My Money/Give Up My Name/Take It Away/I’ll Give It Away/Give It Away/I’ll Give It”) come a realizzare concretamente quel senso di liberazione istintiva e totale evocato dal testo, si butta tra la folla per un energico stage diving; dopodiché, al termine di una tiratissima “Two Steps, Twice”, con una lunga ed energica improvvisazione di una band ormai lanciata a briglia sciolta, appare sulla balconata del locale e ritorna sul palco facendosi largo in mezzo al pubblico. 

Una serata perfettamente riuscita, con due tra le migliori band del rock del futuro. A conti fatti, gli Everything Everything si sono dimostrati superiori, perché hanno saputo interpretare il loro ruolo in maniera spontanea, divertente e rilassata; i Foals, tecnicamente impeccabili e devastanti dal punto di vista ritmico e sonoro, sono apparsi solo un po’ più freddi e controllati, più studiati a tavolino (anche se, considerato il loro genere, non è detto che sia un male).

Il 2016 non segnerà la fine della musica che amiamo, nonostante le morti illustri e i Talent Show. Scusate se è poco.