Forse il cantautore bolognese Miki Porru rappresenta uno degli ultimi – rari – esponenti di una canzone sparita.  Sparita e da ricordare.  Non un’immagine-cartolina ma una modalità tuttora ineguagliata di dire qualcosa sull’oggi di vita, relazione e sentimenti che con il tempo è sbiadito ed è stato dimenticato in favore di slogan, giovanilismi e finzioni esistenziali.  In questo contesto il nuovo album “Diamanti” – uscito sul finire dello scorso anno –  può essere accolto e salutato come ideale ripasso di sacri e salutari dogmi della canzone confidenziale d’autore italiana, con il suo tenore confessorio che assume ora toni gravi ora ironici ora scopertamente affettuosi. 



Vi si canta un immaginario dei sentimenti che è un riassunto del vissuto e vivente dell’universo degli chansonnier.  Illusioni, delusioni e attese della relazione amorosa del terzo millennio, quello stesso che Porru ha in parte fatto a pezzi e coniugato con disincanto nel bel precedente di “L’Uomo Che Cammina” (2012).  



L’indagine e la rimessa in discussione di quelle tematiche regalano un secondo tempo dove la mai sopita dimensione del desiderio e della speranza sembra volersi giocare una rivincita.  Ne risulta un disco maturo, ancora più completo, centrato ed equilibrato, forse il più bello della carriera del cantastorie emiliano.

Coadiuvato dalla efficace e trasparente produzione di Red Canzian con la complicità decisiva di musicisti di prim’ordine della scuderia di quest’ultimo quali i chitarristi Alberto Milani e Ivan Geronazzo, il bassista Andrea Lombardini, il tastierista Daniel Bestonzo e lo strepitoso batterista Phil Mer, oltre al rinforzo vocale della brava e giovanissima Arianna Cleri – il nostro ingaggia un serrato confronto, quasi dialettico, sul terreno delle più svariate declinazioni dei sentimenti ma con un senso di speranza se non del tutto inedito, sicuramente rivisto al rialzo.



Un disco che trova linfa e slancio nei suoi primi due episodi, in primis una Canzone che fa male che assomma minimalismi e trasvolate tra Bindi, Paoli e la tradizione melodica francese mutuata dai leit motiv rinascimentali di William Byrd.  Chitarre che sfiorano temi più che descriverli, Porru che timbra immancabilmente le note con la sua particolare smorfia di gola e di stomaco.  Elementi che rivestono anche una sorniona e tenera Cielo e Vento dove scrittura, levigati effetti sonori e contrappunto vocale della Cleri completano una delle più belle pagine del cantautore.

E’ un lasciapassare qualitativo fondamentale per un prosieguo che si muove con agilità contenendo i cali di tensione al minimo grazie all’appoggio conferito dalla forza evocativa di quest’inizio.  Come un percorso già tracciato che imprime alla narrazione un’impronta forte quanto basta per raccontarsi da sé.  A una title track Diamanti che declina il rimpianto con l’ironia di certe ballate graffianti e sostenute della migliore tradizione d’autore italiana, fa da contraltare un’ Amare fra le stelle che scombina i piani facendo andare a braccetto desiderio e sottile vena di disincanto, mentre il duetto con Canzian Amore davvero rilascia un senso di tenero e rigenerante stacco in una ballata fluida e di grande cantabilità.

Come si concilia allora il frequente monito di Porru sugli agguati del disamore con questa sorta di nuova spinta ideale memore della grande promessa insita nell’incontro amoroso?  Si direbbe senza forzature come evidenziato da episodi in rapida successione come Più non è e Lo vedi come sei.  Prevalgono le zone grigie, i piani si mischiano senza risolversi in trionfalismi ma neppure in teoremi della disillusione.  A testimoniarlo un altro dei migliori episodi del disco Spilli e lapilli, danzante sostenuto che incarna un bel paradigma di effervescenza melodica tra lusinga e sberleffo.

In questo contesto  la riproposizione de La fine ha tutta la natura dell’espediente artistico.  Nel precedente disco lo chiudeva lasciando un sentore di vanità, qui – quasi come un throwback selfie –  si colloca esattamente prima di un epilogo che ne rovescia le sorti.  La storia d’amore più bella che c’è  è una consapevole ultima parola dell’autore, una responso sulla convenienza del rapporto a due come termometro della dimensione del senso se non per il mondo sicuramente per sé.    

Un lavoro che conferma ed anzi aumenta l’impressione di trovarsi davanti ad un autore di qualità.  A coronamento del tutto una bella performance che ha visto Porru – insieme alla band – presentare il disco quasi per intero sul palco della milanese Salumeria della Musica nello scorso ottobre, ripercorrendone con efficacia e piglio sicuro le tappe essenziali.  Un autore ancora misconosciuto che meriterebbe questo e altri palchi con maggiore frequenza.