Fede e grazia. La cantante le invoca con la voce che sembra una lenta litania. Fede e grazia. Parole che non si sentono più dire da nessuno. Perché implicano l’ammissione del nostro bisogno. Faith and Grace è la canzone che chiude il doppio, doloroso, ma incredibilmente bello, ultimo disco di Lucinda Williams, “The Ghosts of Highway 20”, dodici minuti interminabili che ti lasciano inchiodato sul posto a bocca aperta. 



Le sue origini profondamente sudiste, ambientate fra le paludi fangose abitate da spiriti  dolenti della Louisiana, le pesche dolci amare della Georgia, la solitudine abbacinante dell’Alabama, le luci al neon di Nashville l’hanno resa la Flannery O’Connor del rock. Gothic rock. Predicatori che hanno venduto l’anima al diavolo, la schiena di Parker sanguinante del volto di Cristo inciso nella pelle, la malinconia della vita che si spegne nell’ansia delle possibilità perdute, la magnificenza di una catapecchia ai bordi dei campi di cotone. 



“The Ghosts of Highway 20” è un disco di fantasmi, è una lunga riflessione sulla morte, una manciata di canzoni sfregiate dal tempo, che non chiedono perdono eppure potenti. 

In realtà il concetto di canzone comunemente conosciuto è fatto a pezzi in questo disco. Ogni brano è come una improvvisazione, una declamazione poetica che serve da motivazione per andare oltre, in una dimensione trascendentale che paradossalmente porta allo spasimo estremo la canzone stessa. Per fare ciò, Lucinda Williams si è messa accanto due musicisti straordinari, il meglio sulle corde dell’America contemporanea, il polistrumentista Greg Leisz e il chitarrista jazz Bill Frisell. A loro lascia campo totale, le loro chitarre, le slide, gli effetti sonori straripanti di colori autunnali strazianti si intersecano e si elevano ad altitudini immense, portando ogni brano del disco a superare abbondantemente i cinque minuti, dodici nel caso del brano conclusivo. Non sentirete altre chitarre del genere in nessun altro disco quest’anno



Alla fine, queste canzoni sembrano una elegia funebre, una lucida commemorazione davanti a una cassa da morto, eppure chiedono la vita, tutta intera. Fede e grazia. 

Bisogna aver fede per credere in Dio, ci vuole la grazia dello stesso Dio per aver fede. Le due cose apparentemente si escludono: chi non riceve la grazia di Dio non potrà mai aver fede, ma se non hai fede in primo luogo non ti verrà concessa la grazia. E’ la grande guerra che si combatte nel cuore di ogni uomo, da tempo immemorabile, una pazzia per chi si accontenta del tutto e subito. My burden is hard to bear And no one to help me share But I know I can make the call ‘Cause I know God will bear, That’s all, that’s all, that’s all I need Faith and grace will help my run this race”.

Lucinda Williams è sempre andante contro le certezze facili della vita, la sua voce rotta e straniante lo testimonia, una sorta di voce nel deserto che implora, desidera,  una sessualità prorompente, rammarico, senso di perdita, desiderio carnale e spirituale, sorta di Leonard Cohen in gonnella. “Ancora oggi canto il dolore. Il dolore non se ne va solo perché ti sei sposato e abiti in una piccola casa carina, nessuno sarà mai veramente felice, nessuno è in grado di rendere l’altro veramente felice”. Chi vi dice il contrario, chi vi promette la felicità, chi vende felicità, chi vi molla pacche rassicuranti sulle spalle, chi offre il suo corpo è un bugiardo. Lucinda Williams non mente, non lo ha mai fatto nella sua straordinaria carriera.

“The Ghosts of Highway 20” è ovviamente anche un disco autobiografico, che ha preso consistenza alla morte del padre, Miller Williams, noto poeta sudista, lo scorso anno, mentre un brano è declamato pensando alla tomba della madre. Ma è anche il disco che parla di una strada secondaria, l’interstatale 20, che la Williams ha percorso per decenni, dalla Lousiana al Texas, nelle piaghe e nelle ferite dell’America. E come sanno tutti, l’anima dell’America non è a New York o a Los Angeles, è nelle sue strade secondarie.

Il filo della Highway 20 collega queste canzoni , rispecchiando il percorso tortuoso della strada stessa, una strada che passa vicino alla casa di infanzia della Williams, all’ultima dimora di sua madre, quei posti dove le immagini dei suoi anni di crescita e maturazione sono da sempre piantati. Il collegamento più profondo è qui, in particolare sui toni scuri e nebulosi della struggente title track, in cui Lucinda riflette le vite che sono state vissute,  le eredità che sono state lasciate e le impronte che rimangono sulla sua propria anima, quelle vignette come una tavolozza abbastanza sfumata per dare la pausa giusta all’ascoltatore per riflettere, ma abbastanza nude e crude perché il messaggio non vada perduto. 

Che sia l’incommensurabile tristezza di un testo inedito di Woody Guthrie da lei musicato, House of Earth, in cui la protagonista è una prostituta che ringrazierà se andrai da lei, ma che sarà felice se non avrai bisogno di andarci, o l’operaio che si trascina ai cancelli della fabbrica nella ripresa di Factory di Springsteen. O che sia il rockabilly suonato dai fantasmi di Bitter Memory, o la dolcezza straniante del blues di Doors of Heaven, si tratta, come dice lei, di “southern secrets still buried deep”, segreti del sud sepolti profondamente. Flannery O’Connor applaudirebbe.

Lucinda Williams ha capito il potere taumaturgico delle canzoni. La canzone è qualcosa di magico, la sua forza è invisibile. Le canzoni ti vengono a cercare.  Le canzoni sono onnipresenti, quando sei al supermercato, o seduto in macchina o in una sala d’aspetto. Sulle scale di casa, per strada, nel traffico. Mentre stai guardando tua figlia o tua moglie. Le canzoni possono perseguitarti ogni minuto, sono la nostra ombra. E’ qualcosa di inquietante, ma pochi possono accorgersene. Le canzoni di Lucinda Williams, fede e grazia.