Per il Festival di Sanremo del 2016 Arisa annuncia il suo afflato religiosamente corretto sin dal titolo (“Guardando in cielo”). Un ascoltatore ingenuo potrebbe pensare che in cielo si guarda per prevedere la pioggia, ma non è così. L’anima della canzone si rivela già dalla prima quartina: se tu mi chiedi cosa faccio in questa vita amico mio/la sola cosa che so dirti è che non lo so nemmeno io/viviamo tempi troppo austeri/siamo animali di città.



L’ipotesi del primo verso rivela una certezza, avere un amico che chiede, un lusso di questi tempi. Se l’amico non facesse domande niente riflessioni e addio Sanremo. Questa spavalderia però perde terreno nel secondo verso con una candida ammissione di inconsapevolezza, finanche di spaesamento. Non sapere cosa si faccia nella propria vita può avere risvolti non sempre positivi per l’autostima e in questo senso il terzo verso viene in aiuto. La causa dello scollamento dalla realtà non è endogena, ma, grazie al fatto di avere geni italiani, nasce all’esterno del sé. La responsabilità è sempre di qualcun altro o di qualcos’altro, in questo caso dei tempi troppo austeri. Se quest’austerità ricada nel versante economico o in quello morale non è dato saperlo, certo è che il distacco di cui sopra si evidenzia ulteriormente nel verso successivo che segna un salto logico, poetico e narrativo rispetto ai tre precedenti.



Arisa non solo appare confusa sul piano esistenziale ma anche su quello razionale: l’austerità non ha mai impedito agli animali di città di passare alla campagna, anzi esistono prove del contrario. Ma l’ossimoro animale di città è propedeutico all’affondo della strofa successiva, nella quale si viene al dunque: eppure sai che ogni notte prima di dormire io/che ho preso tutto da mia nonna faccio una preghiera a Dio/potrà sembrarti rituale però a me dà serenità/con la certezza che ci sia una realtà/che va al di là di questa comprensione mia.

Non a caso eppure introduce una coordinata avversativa, a conferma della confusione affabulatoria con cui Arisa sta sottomettendo l’amico che ha chiesto. Il meta testo sarebbe: nonostante tu pensi che io sia una fuori di testa perché sto rispondendo a una domanda che non mi hai mai fatto, e sto rispondendo senza in realtà avere la risposta, ora ti mostro il mio lato normale. La sera prego. Arisa scomoda la nonna per provare le sue affermazioni: nessuno può contestare la somiglianza con l’anziana signora (ho preso tutto da mia nonna) anche se si può insinuare il dubbio che il tutto di cui parla siano i soldi sotto al materasso, il che spiegherebbe anche la necessità di pregare. Notiamo come questa strofa in particolare soffra stilisticamente: la necessità ad avvalorare una verità di cui Arisa è unica depositaria permette le rime in –io (io- Dio), in –tà (serenità-realtà) e in –ia (sia-magia).



Ma seguiamo lo spirito della canzone e pensiamo positivo: chi di noi non ha un ricordo in epoca pediatrica della nonna con rosario in mano e mantellina sulle spalle dedita alla preghiera? La componente commemorativa del verso si stempera nel motivo iniziale della non comprensione che ritorna prepotente e ingenera altra confusione, anche stilistica. Il verso perde la sua regolarità iniziale e con essa anche la rima. Il senso esce sofferente: potrei chiamarla anche magia/per me adesso si chiama universo/stringo i pugni e rido ancora che la vita è questa sola/se un giorno un’altra vita arriverà/mi sono già promessa di non viverla in città e quindi/di ogni giorno prendo il buono/tanto a cosa serve a un uomo/svegliarsi e dire che oggi non andrà.

Il problema qui riguarda l’indecisione a propendere per Carlo Rovelli o il mago Otelma e la magia di cui parla Arisa ha poco a che fare con il fascino dell’incantesimo. È forse questo divario a indurre un comportamento poco lucido (stringo i pugni e rido) circa l’aldilà (se un giorno un’altra vita arriverà) come se fosse una lettera persa dal postino. Per qualche motivo non detto Arisa ce l’ha con la città e quest’avversione favorisce un sano atteggiamento compensatorio (prendo il buono) che ricorda il carpe diem e si prolunga in uno slancio anti nichilista (tanto a cosa serve … dire che oggi non andrà) che non lascia spazio alle lagne. Uomo contemporaneo accontentati!

Nella strofa successiva troviamo delle conferme, quindi una continuità concettuale, con una sorpresa.

È troppo presuntuosa la previsione di una verità/se tu mi chiedi cosa faccio in questa vita amico mio/la sola cosa che so dirti è che non lo so nemmeno io/viviamo tempi troppo austeri in queste stupide città/ma ho la certezza che ci sia/una realtà che va al di là di questa utopia/per me adesso è solo universo.

Arisa è indispettita dal fatto che qualcuno preveda una verità (la reincarnazione? la dieta perfetta? un mondo senza tasse?) perché una certezza è di per sé inconsistente nel suo mondo sfumato in cui l’unica cosa chiara e netta è l’avversione per la città (e qui viene quasi antropomorfizzata con l’aggettivo stupide). Ma finalmente, e questa è la sorpresa, nei due versi successivi la nostra eroina compie un doppio salto carpiato ammettendo una certezza, mettendo definitivamente fine alla ricerca di una logica intrinseca al suo microcosmo disordinato. Questa ammissione convive con la consapevolezza di non poter comprendere. Sono certa di non capire, ci dice con un gorgheggio, e ci assesta il colpo finale con il verso successivo, gemello eterozigote del precedente che menziona la magia: potrei chiamarla anche utopia. Qui il discorso si fa filosofico, possiamo già immaginare le domande di qualche giornalista autolesionista in cerca di qualcosa che non c’è perché, ci rassicura con un altro gorgheggio Arisa, per me adesso è solo universo. Viene quasi il dubbio che la cantante abbia bisogno non di un paroliere ma di qualcuno come Piero Angela.