Che senso può avere presentare già una lista dei dieci migliori album dell’anno a soli tre mesi dall’inizio del 2016? Semplice: dimostrare che di cose valide ne escono in continuazione, nonostante le considerazioni che sempre più spesso si sentono fare attorno alla “morte della musica”. 

C’è un’inflazione impressionante, questo è ovvio. Ogni settimana escono almeno quindici titoli diversi (spesso di più) e rimanere aggiornati, anche solo nella propria area di maggiore competenza, è praticamente impossibile. Bisogna piluccare qua e là, buttandosi in primis sui nomi che già si amano e si conoscono, ma avendo anche il coraggio e la curiosità di farsi solleticare da nomi sconosciuti, ascoltando qualche singolo e cercando di capire se ne vale la pena. 



E arrivati ormai a metà marzo, il sottoscritto di cose belle ne ha già sentite molte. Qui di seguito ho provato a stilare una breve descrizione (non in ordine di preferenza) delle dieci che mi hanno colpito di più. Ci sono diversi nomi conosciuti (nessuno o quasi famoso in senso stretto) ma anche qualcuno di completamente oscuro, che segnalo nella speranza che possa affascinare altri come ha affascinato me. 



E tralascio volutamente i lavori di David Bowie e Daughter, di cui ho già parlato a suo tempo, qui o altrove, e che sono due dischi che hanno già ricevuto fin troppe attenzioni. Sono sicuro che da qui a dicembre le uscite nelle si saranno più che quintuplicate. È bene quindi cominciare a fissarne alcune, anche solo per ritrovarci prima di Natale e capire se ci avevamo preso oppure no…

Dream Theater “The Astonishing”: la band di New York è stata tra le prime alla base di quel genere che può essere chiamato “Prog Metal”, partendo dai Genesis e rendendo quella proposta sonora più pesante nei suoni e più lineare nelle melodie. Ne sono seguiti due capolavori come “Images and Words” e “Awake”, nel biennio 1992-94 ma da allora la forma e la classe di quei tempi è apparsa impossibile da ritrovare. Tante belle idee, qualche canzone superlativa, ma mai un altro disco che facesse gridare al miracolo. Non ci riesce neppure questo nuovo “The Astonishing” ma ci va pericolosamente vicino. Doppio cd, due ore e un quarto di durata (l’album in studio più lungo della storia?), un’impostazione a metà tra musical e opera rock, per un racconto ambientato in un futuro distopico di parziale ritorno al Medioevo, dove dominano i signori della guerra e la musica è stata di fatto bandita dalla società. Una storia banale e parecchio scontata (“2112” dei Rush, per dire, diceva già tutto) ma narrata in maniera musicalmente impeccabile. Non ci sono più quelle prolissità strumentali fine a se stesse che avevano spesso rovinato i dischi precedenti e soprattutto sono ricomparse un sacco di melodie splendide, quelle stesse che infarcivano a tonnellate “Images and Words” (ma anche “Scenes From a Memory”, il disco più bello dopo quei capolavori) e che i nostri sembravano incapaci di scrivere ancora. Un lavoro complesso, che richiederà tantissima pazienza per essere assimilato, soprattutto perché è indispensabile leggere i testi e seguire il dipanarsi della vicenda. Lo presenteranno interamente dal vivo a metà marzo e sarà obbligatorio esserci. 



Oscar “Cut And Paste”: d’accordo, con un monicker così è difficile non farsi ridere in faccia eppure in questo caso l’apparenza conta davvero poco rispetto alla sostanza. Oscar è un ragazzo tedesco che si è già fatto notare lo scorso anno con un ottimo ep di cinque pezzi intitolato “Beautiful Words” , un songwriting pregevole e piacevolissimo, una perfetta via di mezzo tra Morrissey e Stephin Merrit, il che equivale a dire pop rock delizioso e irresistibile. Il tanto atteso disco di debutto non è ancora uscito ma scorrendo la tracklist vediamo che tra singoli apripista e pezzi ripresi dal precedente ep, ne conosciamo già un buon 50%. Abbastanza per poter dire che ci sarà di che divertirsi. Rispetto al lavoro precedente, gli ultimi due brani pubblicati (“Breaking My Phone” e “Sometimes”, usciti tra dicembre e gennaio) presentano un attenuamento della componente romantica e una discreta virata verso un pop robusto e scanzonato, dal sapore vagamente britannico (chi ha detto Blur?). Aggiungiamo che la produzione è di Ben Baptie (che ha lavorato con nomi come Adele o Albert Hammond Jr.) e avremo sufficienti motivi per attendere frenetici il 13 maggio. 

Savages “Adore Life”: Se viviamo davvero in un’era “retro”, il ritorno delle Savages è il disco dell’anno. Joy Division, Echo and The Bunnymen e Siouxsie and The Banshee si fondono insieme in un lavoro che pare la diretta prosecuzione delle visioni oscure del Post Punk. Claustrofobico e primordiale al tempo stesso, le ragazze britanniche hanno confezionato un prodotto senza alcun dubbio di maniera (certi passaggi provocano dei deja vu davvero stordenti) ma diretto e coinvolgente, per chi scrive migliore del precedente “Silence Yourself”, l’esordio che aveva fatto gridare al miracolo tutto il mondo del rock indipendente. Una produzione fin troppo pulita e laccata se consideriamo il genere, che però riesce a valorizzare in pieno dieci canzoni senza alcun cedimento. Menzione a parte per la (quasi) title track e primo singolo estratto, una dichiarazione d’amore alla vita che sa di sincerità e di innocenza primordiale. Sound datato? Forse ma da quando questo è il criterio per giudicare un disco? 

Wild Nothing “Life of Pause”: Jack Tatum è originario di Blacksburg, Virginia. Durante gli anni del college inizia a cimentarsi con chitarra, tastiere e sintetizzatori, sfruttando quella facilità della registrazione casalinga che negli anni avrebbe sempre più cambiato il mondo della musica. 

Realizza “Gemini”, un disco che piace talmente tanto da procurargli un contratto con la storica etichetta Captured Tracks. E dopo un capolavoro come “Nocturne”, uscito nel 2013, arriva questo “Life of Pause” che sembra superare brillantemente la prova del terzo disco. L’indie pop malinconico e sognante che tanto era piaciuto nel lavoro precedente, ha lasciato ora il posto ad un suono più stratificato, dove echi di Talking Heads si mescolano con ritmi caraibici e pulsazioni New Wave, al servizio di canzoni più ariose ma decisamente meno inquadrabili al primo ascolto.

Un altro disco clamorosamente retro ma piacevole al punto giusto. Una conferma e una possibile consacrazione; ancora più importante se pensiamo che nell’universo usa e getta di oggi, già superare i due anni di vita può già essere considerato un traguardo notevole…  

 “Is The Is Are”: È sempre stato arduo capire se i DIIV siano una vera band o semplicemente il progetto solista di Zachary Cole Smith, newyorkese prodigio già membro di un gruppo di culto come i Beach Fossils ma forse più conosciuto nel mondo del gossip per essere da tempo il fidanzato di Sky Ferreira. Ad ogni modo, discettare su ciò che si nasconde dietro il monicker con cui Zachary si è presentato nuovamente sulle scene nel 2012 è assolutamente superfluo. Nel senso che “Is The Is Are” (titolo surreale e sgrammaticato che riprende una poesia di un amico di Smith) è un album meraviglioso. Ci muoviamo a metà tra psichedelia, Post Punk, Dream Pop, con una produzione Lo Fi tipica di un certo Indie snob che tutti odiano e un’atmosfera stralunata e fumosa che riflette i passati abusi di droga del singer. Che a un certo punto, nel singolo “Dopamine” canta di essersi fatto così tanto da essere diventato se stesso. Che è poi il paradosso tragico a cui le droghe prima o poi ti portano. Al punto che i 65 minuti di questo lavoro (che scorrono in realtà molto di più di quanto si potrebbe immaginare) hanno tutta l’aria di costituire il mezzo attraverso cui Zachary è riuscito ad appropriarsi nuovamente del suo io e della sua sanità mentale. Cosa che in “Blue Boredom”, cantata assieme alla Ferreira, viene fuori piuttosto esplicitamente. Possono infastidire per la loro attitudine trasandata e noncurante ma l’indolenza con cui sciorinano riff allucinati e insieme pericolosamente orecchiabili li rende attraenti in un modo che non si può spiegare. Un disco ambizioso, in cui bisogna entrare a poco a poco, passo dopo passo, ma da cui poi risulterà impossibile uscire. 

Sorge “La guerra di domani”: Emidio Clementi è tornato. Non con i Massimo Volume (per quello ci vorrà un anno, più o meno) ma con un nuovo progetto messo in piedi assieme a Marco Caldara, già ingegnere del suono nell’ultimo “Aspettando i barbari”. Sorge prende il nome da una spia sovietica giustiziata dai giapponesi durante la Seconda guerra mondiale ma questo monicker è solo un modo suggestivo per presentarsi al pubblico, nient’altro. Qui dentro ci sono dieci canzoni in cui i piccoli frammenti melodici suonati da Clementi al pianoforte verticale vengono rivestiti dell’elettronica minimale creata da Calchera. Atmosfere a metà tra l’ossessivo e l’inquietante, ideale sottofondo per le narrazioni dell’artista marchigiano, uno che in Italia non ha eguali quando si tratta di lavorare con le parole. In bilico tra autobiografismo e trasfigurazione immaginifica della realtà, qui ci sono alcune delle cose migliori che Mimì (come lo chiamano gli amici) abbia mai scritto. Per chi ha voglia di cimentarsi con qualcosa di diverso, che richieda pazienza e dedizione. 

Morning Tea “No Poetry in It”: Oltre le suggestioni Folk che può dare una chitarra acustica, il secondo lavoro del progetto solista del milanese Mattia Frenna è un connubio riuscitissimo tra le sei corde e un vestito elettronico che a volte è più discreto, a volte più abbondante, a seconda degli umori e delle situazioni. Un disco scuro, pervaso da una melancolia dolce e a tratti quasi affabile, con canzoni che prendono per mano l’ascoltatore per guidarlo in territori rarefatti e in qualche modo famigliari, dove si incontrano la solitudine e il bisogno di qualcuno che ci sostenga. In bilico tra cantautorato classico e pulsioni indie rock, non è un qualcosa per cui si possano citare influenze o riferimenti. Un grande autore e un arrangiatore decisamente capace. Rimarrà di nicchia perché così ormai vanno le cose ma è un prodotto potenzialmente in grado di piacere a tutti. 

Brothers in Law “Raise”: Anche loro erano attesi al varco del secondo disco, anche loro hanno brillantemente superato la prova. La band è di Pesaro, esattamente come i Be Forest (con i quali condividono il chitarrista) e i Soviet Soviet ed esattamente come i loro concittadini è stimatissima all’estero, dove ne parlano normalmente, senza mettere per forza di cosa l’aggettivo “italiano” davanti ad ogni frase. Shoegaze, Dream Pop, Post Punk, una miscela di gusto nostalgico eppure superbamente attuale, queste nuove canzoni appaiono meno scure e privilegiano atmosfere sognanti con chitarre ed archi a creare tappeti sontuosi e dilatati. Un livello di scrittura ancora una volta altissimo, giusto per smentire quelli che dicono che da chi è derivativo non si può attendere nulla di buono. 

Suede “Night Thoughts”: Diciamoci la verità: nessuno si sarebbe aspettato un ritorno degli Suede a questi livelli. La band di Brett Anderson da tempo non era più quella dell’omonimo esordio e di “Dog Man Star”, i due capolavori dei primi anni ’90 che, in piena esplosione Grunge e immediatamente prima dell’uragano Brit Pop, tentarono di aprire una nuova strada alla musica britannica andando a riprendere la lezione di David Bowie e degli Smiths ma declinandola alla luce della spiccata personalità artistica del duo Anderson/Butler. 

Sono seguiti alcuni lavori altalenanti (chi scrive ama comunque tantissimo “Coming Up”, il loro terzo), una pausa piuttosto lunga e poi il ritorno ispiratissimo di “Bloodsports”, nel 2013. 

Questo “Night Thoughts” dimostra che quello non era stato un fuoco di paglia: concept album magniloquente e solenne nella migliore tradizione di “Dog Man Star”, è un racconto struggente che ha al centro il dramma della perdita di una persona amata. Un’unica, fluida e inarrestabile narrazione che scorre via senza nessun momento morto, tenendo alta la tensione grazie ad una sapiente alternanza tra momenti “progressivi” e altri che spingono più sull’acceleratore. Per chi li credeva finiti, ma anche per chi non ne avesse mai sentito parlare. 

Perturbazione “Le storie che ci raccontiamo”: a quasi tre anni di distanza da “Musica X”, il disco che, complice il gran lavoro di Max Casacci dei Subsonica, ne aveva messo in evidenza il lato più smaccatamente Pop rivestendolo con una buona dose di elettronica, il gruppo piemontese prosegue a grandi linee quel cammino, anche se va a recuperare maggiormente le melodie delle origini e si affida alla produzione di Tommaso Colliva (stimato ingegnere del suono ultimamente al lavoro con i Muse) per riabbracciare quelle influenze britanniche che ne avevano segnato la carriera ai primissimi esordi. Il risultato è un disco ancora una volta composto soprattutto da canzoni, tutte ballabili, tutte cantabili, tutte potenziali singoli. La miglior risposta che si poteva dare dopo una doppia e pesante dipartita come quella del chitarrista Gigi Giancursi e della violoncellista e tastierista Elena Diana. Sono uno dei cinque gruppi migliori che abbiamo in Italia e troppa poca gente ne è a conoscenza. Inutile dire che la cosa ci fa rabbia assai.