Seconda parte dell’intervista a Ermanno Labianca, giornalista rock storico, scrittore, autore televisivo e oggi anche discografico. La prima parte è stata pubblicata ieri.

Come giudichi la reazione del pubblico in termini commerciali ai vostri dischi? Sei soddisfatto?

Soddisfatto in termini commerciali assolutamente no. Si può e si deve fare di più. Ma abbiamo deciso di aprire un’etichetta discografica nel momento peggiore e dunque eravamo più che preparati a lottare e faticare per ogni cosa. Riusciamo a malapena a coprire i costi delle opere che realizziamo e a far crescere il catalogo. Siamo una piccola società strutturata come una grande etichetta: abbiamo un sito e guardiamo ai social, abbiamo una casa di edizioni musicali, un distributore, rapporti con negozi, contratti Amazon e iTunes, ci esponiamo con saltuari spazi pubblicitari sulla stampa specializzata, fatturiamo tutto, c’è una gestione economica seguita da un commercialista, abbiamo spese per ogni cosa. Solo esistere ha un costo. Siamo rimasti tra i pochi che inviano il prodotto fisico alla stampa perché è proprio il prodotto quello che ci rappresenta meglio e noi ci crediamo. Anche quello è un costo che altri tagliano. Spieghiamo ai nostri artisti quali sono le risorse e come fare a stare sul mercato entrambi.



Tornando alle vendite delle singole produzioni, se qualcuna produce degli utili, questi vanno a compensare le perdite sommate da altre. Non è semplice, viene spesso da chiedersi perché andiamo avanti, poi arriva il titolo successivo, e la voglia si riaccende. A ogni pubblicazione abbiamo la conferma che si è creato un certo interesse intorno al nostro lavoro, che la stampa ci segue e ci riconosce un’identità, così i dubbi svaniscono. Ma da questo a essere certi del futuro e a sentirsi garantiti ne corre.



Tra italiani e stranieri, quale artista ti piacerebbe produrre in futuro?

All’estero ci sono tanti nomi ai quali ci piacerebbe dare una chance e che saremmo orgogliosi di avere in catalogo. Nomi senza più un contratto o che si autoproducono per forza d’inerzia. Ci sono ancora numerosi talenti nel mondo del songwriting internazionale che hanno pubblicato moltissimi dischi e che restano in pista, dimenticati dalle major. Ad alcuni non mancano le buone canzoni, gli fa difetto quella capacità organizzativa e quella visione d’insieme che un’etichetta ancora può dare, e che si traduce in cura per il packaging, contatti con la stampa, pazienza nel gestire tanti piccoli rapporti che un artista, specialmente non nel suo paese, non può avere. Ne stiamo seguendo alcuni e presto potremmo annunciare qualcosa. 



In Italia? 

Credo che saremmo l’etichetta giusta per i Gang, che però sono abbastanza in gamba e hanno tanto passato per fare bene le loro cose da soli e lo stanno dimostrando. Seguo da tempo, e ho già prodotto, per For You2, il tributo a Springsteen, il salentino Luigi Mariano. E’ un talento, un songwriter di stampo classico che scrive benissimo in italiano e sa tradurre e adattare come pochi dall’inglese. Avevamo parlato di mettere in fila un bel po’ di brani di Bruce adatti a farsi tradurre, poi è passato del tempo. E’ il nostro progetto nel cassetto, che magari non si realizzerà mai, ma che potrebbe diventare anche altra cosa, chissà. 

Se parliamo di sogni, di veri sogni, il mio è di produrre a Francesco De Gregori un Amore e Furto – volume 2, che non sia il sequel dell’omaggio a Dylan ma con le canzoni di John Prine, Townes Van Zandt e altri tradotte da lui in italiano. E’ una  strada che lui ha già battuto traducendo Steve Goodman, cantando Danny O’Keefe con Ron e Dalla, rileggendo nella nostra lingua Tom Russell e Steve Young, canzoni già esistenti e sparse, dunque non mi sto inventando nulla, ma un intero disco, pensato bene, è un’altra cosa. Sarebbe un piccolo evento, soprattutto per noi… americani d’Italia. 

Nella tua vita hai fatto di tutto: giornalista, scrittore, discografico, produttore, televisione: chi sei, un uomo del Rinascimento? O semplicemente ti stufi dopo un po’? Che cosa ti ha dato più soddisfazione?

Non necessariamente c’è dell’utile in tanta vivacità e mobilità. Spesso mi chiedo se non fosse stato meglio fare una cosa sola ma sono felice di aver fatto tutto quello che ho fatto. Ho colto tutte le occasioni che mi sono capitate, molte me le sono cercate con determinazione, altre hanno cercato me. Non ho mai tagliato i ponti con nessuna delle strade, ci sono state delle andate e ritorno. Niente è per sempre e nulla è mai concluso. Quelle vicende sono una cosa sola, ed io sono il frutto di tutte quelle esperienze. Se mi stufo? Evidentemente no, sono recidivo un po’ in tutto. Ho iniziato scrivendo e non ho smesso mai. Lo faccio da più di trent’anni. Poco più che ventenne mi fu offerto di scrivere per il Giornale di Voghera, da allora ho attraversato quasi tutta l’editoria musicale italiana vedendo il bello e il brutto. Quando era evidentemente un problema scrivere di musica e musicisti perché lavoravo in una multinazionale del disco, ho continuato a farlo per alcune testate usando uno pseudonimo: troppo forte l’amore per l’approfondimento e la divulgazione di qualcosa che amavo e amo tuttora molto. Va da sè che in quegli anni non ho mai scritto di artisti, italiani e internazionali, che rappresentavo. Una bella mutilazione se tieni conto che in quel periodo ho lavorato con e per alcuni tra i nomi che preferisco: Mellencamp, Cohen, Dylan, Springsteen, Bowie, De Gregori, Fossati, Mannoia e altri. Questa cosa ti dà la misura della frustrazione che ho vissuto ma anche del privilegio professionale che ho avuto.

Oggi continuo a scrivere, le strade non mancano. Collaboro con Classic Rock e alcuni siti. Sono in cerca di spunti per il mio undicesimo libro, ma potrei non trovarne. La televisione, non solo programmi musicali, resta un punto di riferimento. 

 

Hai cominciato appunto a scrivere negli anni 80, quando le riviste musicali in Italia avevano un bel seguito. Oggi hanno chiuso quasi tutte. Perché? Colpa di internet? C’è un sito musicale in particolare che secondo te vale quanto le riviste di un tempo?

Internet è il grande colpevole, di tante implosioni. L’editoria musicale ma anche la discografia hanno accusato il colpo. Non va dimenticata l’onda lunga dell’effetto cd, che all’inizio ha gonfiato i fatturati ma poi è diventato quasi subito un boomerang. La sua riproducibilità, l’affezione che veniva sempre meno per l’oggetto che, qualità audio a parte, offriva meno del vinile hanno contribuito a selezionare e asciugare il numero dei fruitori. La massa è superficiale, copia, fruisce distrattamente. C’è un’elite ancora fedele ma non basta. E’ però quella che tiene in vita quel che resta dell’editoria musicale del nostro paese. Senza contare quelle che si dedicano a un’area specifica o a quelle che parlano perlopiù di alta fedeltà e di strumenti, le cinque o sei che resistono, e che sembrano voler coprire l’ampio arco di ciò che viene pubblicato in campo discografico, è indubbio che risentano della forza e dell’immediatezza di Internet.  Mi è difficile indicare un sito che mi appaghi quanto certi mensili che compravo tra i quindici e i vent’anni e che mi hanno insegnato parecchio. L’enorme offerta mi porta a pescare informazioni dove capita. Mi piace il taglio libero dei blog di tanti amici, esperti di musica. Trovo che fuori dalla gabbia di una pubblicazione ufficiale – mi riferisco soprattutto a quelle cartacee – si trovi il modo di esprimersi molto bene. Serve esperienza per essere dei buoni editor di sè stessi, per questo chi è giovane e troppo baldanzoso finisce col riempire la rete di materiale e affermazioni più che rivedibili, roba avventurosa che col tempo finirà per disconoscere, se non a cancellare. Provo anche a seguire dove capita il pensiero di quei critici esteri, soprattutto americani, come Bill Flanagan, Anthony DeCurtis e Greil Marcus che ho ammirato negli anni e dalle cui interviste e recensioni ho cercato di imparare qualcosa. Su Tiny Mix Tape, un sito di Los Angeles, scopro invece molta musica indie alla quale non arriverei mai. Additare Internet come il mostro nero che ci spaventa e ci impoverisce però è sbagliato: se usato bene è un incredibile fonte di conoscenza e di scambio.

Non pensi che chi scrive di musica oggi tenda a parlare di se stesso invece che del disco o del concerto? 

Accade. Ma la gradevolezza della lettura dipende sempre dal tono e dalla firma, che fanno la differenza. La credibilità è d’obbligo. Se chi scrive riesce a coinvolgermi portandomi nella sua vita è un risultato che non disprezzo. E’ bravo chi riesce a fare entrambe le cose con qualità: regalare l’emozione personale e mantenere un livello critico accettabile.

I social network stanno facendo piazza pulita di contenuti online un tempo rilevanti come i blog o i siti personali. E’ un bene o un male? 

 Io come ho detto prima vado a caccia di blog e siti personali. I musicisti in tour raccontano storie incredibili e retroscena interessantissimi. Quello che scrivono in forma più privata – si fa per dire – è meglio di ciò che raccontano ai giornalisti, e poi tutto – questo e altro – rimbalza fatalmente sui social network, dunque se intendi questo per fare piazza pulita in un certo senso è vero.  

In nessuna intervista ad Adam Duritz ho letto riflessioni profonde e intime come quelle che la voce dei Counting Crows pubblicava su un blog, o più precisamente un tour-diary ora non ricordo, che era una mia tappa fissa alcuni anni fa. Ne ho perso le tracce da tempo e mi dispiace molto. Forse si era stufato di rientrare in hotel alle 4 del mattino e di scrivere e ruota libera, ma a me piaceva moltissimo leggerlo.

 

La possibilità di autoprodursi un disco in casa e di venderselo online ha portato a una proliferazione pazzesca, ogni giorno escono due o tre dischi nuovi. Un tempo c’era il discografico che faceva da filtro e diceva a un artista se le sue canzoni valevano la pena o no. Era meglio prima o l’anarchia di oggi?

Finiamo fatalmente per restare a parlare dell’effetto di Internet sulla nostra società e su più di una dinamica legata al mondo della comunicazione e dello spettacolo.

Così come non è sempre fruttuoso quel suo concedere a tutti la possibilità di sentirsi critici musicali, allo stesso modo ha rivoluzionato l’approccio dei musicisti, degli artisti all’industria e al mercato. Sono venuti meno come affermi tu alcuni filtri, anzi moltissimi filtri, e non sempre è un bene. Ma è un discorso ampissimo, non saprei da dove iniziare e nemmeno dove finire. Ognuno faccia autocritica. Se può.

Se i dischi non vendono, gli stadi per i concerti si riempiono sempre. Come mai? Solo voglia di vedere “la leggenda” prima che tiri le cuoia? “Eventismo”, dire c’ero anche io? O perché la musica live è meglio dei dischi che fa oggi l’artista che andiamo a vedere?

E’ vero ognuno dei motivi che hai esposto. La performance live ha superato di gran lunga il piacere di ascoltare un disco. E’ una cosa che non mi sento di contestare. Io stesso tra la versione in studio di un brano di Van Morrison o di Sheryl Crow e una loro partecipazione a uno show televisivo da acchiappare al volo su You Tube oggi mi dirigo sulle seconde. Non è solo una questione di comodità: è che ho ascoltato tanto, e il discorso non credo valga solo per me, ho bisogno di impegnare più sensi. E per lavoro sto spesso davanti allo schermo di un computer. Cosa c’è di meglio di un concerto, se visto bene? Ma qui si imporrebbero diverse riflessioni. Noi in Italia continuiamo a essere un po’ penalizzati rispetto al Nord Europa e agli Stati Uniti, dove ci sono molti più impianti.

Poi è vero che molti artisti che amiamo parecchio ci convincono di più dal vivo che con i nuovi album. Potere delle vecchie canzoni, figlie di anni in cui la loro creatività era altissima.

 

Bagarini a parte, i costi aggiuntivi non sono esagerati secondo te? E il monopolio come quello di Ticketone non è un male?

Argomento caldissimo, che sempre su Internet e sulla sua potenza converge. Un tempo la differenza tra chi aveva una fame feroce di concerti e chi voleva semplicemente curiosare o unirsi al gruppo per altre ragioni più deboli era enorme. I più motivati si organizzavano, facevano la fila nei posti giusti, e dovevano industriarsi per raccogliere informazioni utili sulle date e sulle prevendite all’estero, si rivolgevano agli amici all’estero per recuperare qualche biglietto per andare a sentire musica all’Arena di Frejeus o all’Hallenstadion di Zurigo. Chi ha visto gli Who o Springsteen lassù, molti ma molti anni fa, ha dovuto scalare montagne. Chi ci teneva sul serio ci riusciva, e non perdeva la pazienza, chi era meno motivato si arrendeva in partenza o dopo un tratto di strada. Oggi siamo tutti lì, sulla griglia di partenza per un concerto che si terrà a Milano o a Washington. Tutto dipende dalla tastiera, dal collegamento, dalla conoscenza o meno di piccoli trucchi per arrivare prima degli altri. Che uno digiti da Cinisello Balsamo o da Tokyo non fa differenza: in quella prima fase di vendita online ha le stesse possibilità di arrivare a quel biglietto per il prato di San Siro. Molto democratico, non discuto, ma questo per alcune città più attraenti ha centuplicato la domanda per un evento. Aggiungi che oggi si vola lowcost e questo aiuta molto chi dice “proviamoci”.  

 

Ognuno ha il suo “idolo”, io Dylan, tu Springsteen, ma ognuno ha anche il suo disco di cui è innamorato pazzo senza sapersi spiegare perché. Per me è CSN del 1977, per te?

I dischi di cui innamorarsi pazzi sono quelli che abbiamo osservato con occhi giovani e ascoltato non del tutto preparati. Sono quelli che si sono impossessati di noi prima che noi potessimo veramente fare lo stesso con loro. Sono quelli di cui abbiamo amato la copertina, il suono, l’etichetta, le canzoni, la storia: tutto. Nella categoria, per quanto mi riguarda, rientra pienamente quel disco di CSN, con la barca, il mare e le voci perfette. Non riesco a sceglierne uno solo. Fammi dire anche Damn The Torpedoes di Tom Petty con la Rickenbacker al collo e Late for the sky di Jackson Browne, con quel cielo Magritte e la Chevrolet piazzata davanti casa. E Blue di Joni Mitchell? Domani potrei dirtene altri, ed aggiungerne di insospettabili, raccolti in un mondo esterno al rock. Ho un rosario di dischi di cui sono innamorato pazzo.

 

So che hai conosciuto di persona Springsteen: è stato fedele all’artista? Spesso di persona gli artisti deludono. Un aneddoto?

E’ una domanda ricorrente alla quale rispondo sempre allo stesso modo, senza dubbi: si. Per essere la star che è, nelle poche occasioni che mi sono state concesse di avvicinarlo, mi è sembrato disponibile, semplice, affettuoso. In una cena a Milano dopo lo show del 1999, serata del “Reunion Tour” con la E Street Band, l’ho visto avvicinarsi a Nils Lofgren: parlavano delle loro madri e a un certo punto Bruce ha accarezzato sul capo il suo amico in un modo che mi ha sorpreso. Un gesto semplice, ma fatto lì, in quel momento, tra due rockstar, mi è sembrato una dimostrazione di monumentale umanità.

 

La cosa professionalmente parlando che ancora non hai fatto e che ti piacerebbe fare.

Desideravo viaggiare in uno di quei tour bus stile “Almost Famous” ed è accaduto. Anni fa un mensile mi ha spedito al seguito di un tour di artisti poco affermati – uno era il londinese Adam Mastersons – ma proprio per questo potei girare con loro, con lo stesso schedule delle band, nello stesso pullman. Quattro giorni e quattro notti tra Inghilterra, Galles e Scozia. On the road di notte, verso la prossima città, al mattino una doccia nella palestra di qualche università, due passi per il posto, il soundcheck e il concerto, alla fine del quale ci si rimetteva in viaggio. Bellissimo. Il driver aveva lavorato nei Settanta e gli Ottanta con le più grandi star per le strade inglesi. Ho parlato ore con lui. Racconti da farci un libro. Se solo avessi preso appunti.

Ma il vero, grande desiderio professionale lo trattengo con riserbo, nella speranza che accada.