Dopo anni, anzi decenni, in cui “Mefistofele”, l’unica opera completata da Arrigo Boito, sembrava definitivamente uscita dai cartelloni dei teatri italiani – la sua seconda opera “Nerone” non era finita quando il compositore e poeta morì nel 1918, nonostante ci avesse lavorato sin dal 1865 o giù di lì –, il lavoro torna sui palcoscenici del nostro Paese. Nonostante sia di frequente allestito all’estero, negli ultimi venticinque anni, in Italia “Mefistofele” è stato visto ed ascoltato solo otto volte – alla Scala, a Genova, a Macerata, a Roma, a Palermo e a Torino (dove peraltro non è stato curato un nuovo allestimento, ma ne è stato importata una produzione del War Memorial Opera di San Francisco). Si è avventurato nella intrapresa anche il piccolo teatro Maruccino di Chieti ma solo per due sere e la produzione non ha trovato altri sbocchi.
Uno dei più noti critici dell’inizio del Novecento, Gustave Kobbé, autore di una monumentale enciclopedia ancora periodicamente aggiornata, ha scritto profeticamente che “Mefistofele” è “una delle opere più profonde del repertorio lirico ed una delle più belle partiture mai scritte in Italia, pur se raramente rappresentata nel Paese d’origine”. Più di recente, Guido Salvetti la ha chiamata “inimitabile” ed ha sottolineato quanto Puccini e Giordano siano tributari di questo “unicum ancor oggi problematico e controverso”.
Con coraggio, il 18 marzo il Teatro Verdi di Pisa ha presentato un nuovo allestimento che si vedrà anche a Lucca e a Rovigo e speriamo incoraggi altri ‘teatri di tradizione’. Una ragione normalmente presentata per spiegare i rari allestimenti di ‘Mefistofele’ è l’enorme sforzo che richiedono in quanto non solo l’organico orchestrale è smisuratamente mahleriano ma, oltre ad otto solisti, ci vuole un coro di duecento voci (compresi i bambini), mimi e frequenti cambiamenti di scema (dal Paradiso all’Inferno, dalla Germania tra Medioevo e Rinascimento alla Grecia antica. Cosa spiega il ritorno di “Mefistofele”?
Andiamo con ordine, il dramma in musica di Boito – occorre ricordarlo a chi non ne ha dimestichezza vista la rarità delle esecuzioni e la stringata discografia trovabili in Italia – è l’unico, tra le tante opere ispirate dal “Faust” di Goethe, che si pone l’obiettivo di mettere in musica sia la prima sia la seconda parte degli oltre 12.000 versi; intende dare corpo non tanto alla vicenda passionale trattata, ad esempio, da Gounod, (tra Faust, ringiovanito grazie al patto con il diavolo Mefistofele, e l’innocente Margherita) ma alla ricerca del significato della vita, da trovarsi grazie alla Fede. E’ un lavoro monumentale in cui si spazia da un prologo in Cielo, alla Germania del Medio-Evo, all’orgia dei diavoli all’Infermo, alla Grecia classica per approdare alla catarsi finale. La versione iniziale (presentata alla Scala nel 1868) durava circa sei ore; si esegue di norma quella rivista dallo stesso Boito per Bologna (1875) di circa tre ore e mezzo. Rompe tutti i canoni dell’opera italiana della seconda metà dell’Ottocento. La partitura è ardita (specialmente se giudicata nel contesto dei teatri italiani del 1868-80, dominati dal melodramma verdiano ed, anzi, dagli epigoni del Maestro di Busseto).
E’ un vero e proprio strappo con una tradizione musicale allora isolata dalle correnti europee; introduce nell’opera italiana lezioni tratte da Beethoven e da Wagner, nonché da Chopin e da Schubert. Verdi lo capì e si affidò a Boito per riscrivere, e ricomporre, “Simon Boccanegra” e per i suoi due ultimi capolavori “Otello” e “Falstaff”. In effetti, mentre i francesi (Gounod nell’opera “Faust” e Berlioz ne “La damnation de Faust”) hanno dato una lettura perbenistica, ove non moralistica, del mito, il senso del capolavoro di Goethe è stato colto bene nella sinfonica tedesca (la Faust symponie di Liszt, l’Ouverture Faust di Wagner, l’Ottavia Sinfonia di Mahler), ma solo due compositori italiani sono riusciti, in modo molto differente, a portarlo in scena recependo alcuni dei messaggi essenziali del poeta di Weimar: Arrigo Boito, per l’appunto, con “Mefistofele” (nel 1868-1875) e Ferruccio Busoni in “Doktor Faust” (nel 1925), tratto, peraltro, da Marlowe piuttosto che da Goethe.
Tuttavia, non solo lo “scapigliato” Arrigo Boito (leader del movimento culturale milanese che tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento faceva riferimento alla “Scapigliatura” come elemento che lo contraddiceva dall’intellighenzia dominante) ha avuto l’ambizione di ridurre in teatro in musica il succo del capolavoro di Goethe ma lo ha intitolato non al vecchio scienziato, Faust, che stringe un patto con il diavolo, ma al dèmone: Mefistofele.
Non si tratta di un mero sotterfugio editoriale.. C’è qualcosa di più sottile e di più profondo: dipingere le due anime di Mefistofele (e dare loro significato universale astorico), così come Goethe era penetrato nelle due anime di Faust (ed aveva dato loro significato universale ed astorico). In un passaggio importante del lavoro di Goethe, peraltro, non ripreso in nessuna delle versioni in dramma in musica, Faust parla (ed a lungo) delle sue due anime che lo tirano in due direzioni opposte e non conciliabili. Boito, rivoluzionario come lo può essere un conservatore della Destra storica (legato, inoltre, per un decennio ad Eleonora Duse) nell’epoca in cui, prima, si preparava e, poi, si attuava, il trasformismo dei Governi Depetris, vuole invece scavare nelle due anime di Mefistofele: il più bello, il più intelligente, il più ambizioso degli angeli, respinto dal Cielo perché sfida Dio (prologo), ed impegnato a dannare il più saggio degli uomini, Faust, portandolo a sedurre la più innocente delle donne, Margherita, ed a partecipare alla più sfrenata delle orge (primo e secondo atto), a farla condannare al patibolo per matricidio ed infanticidio (terzo atto), a dargli la possibilità di fornicare con la più avvenente e più peccaminosa delle regine, Elena di Troia (quarto atto). E’, però, distrutto – anzi annientato- dal pentimento di Faust e dalla commiserazione celeste (epilogo).
Scavare nelle due anime di Mefistofele – una tesa versa una bellezza ed un’ambizione che si trasformano da Bene in Male proprio perché senza freni e senza limiti, ed una tesa invece verso la corruzione (altrui) e verso la dannazione eterna (propria) – ha aspetti sia filosofici sia politici ed economici.
Sotto il profilo filosofico – lo dicono bene il musicologo americano Gwin Morris ed il basso Norman Triegle in scritti dell’inizio degli Anni 70, quando “Mefistofele” venne allestito dalla New York City Opera in una produzione con un successo da fare impallidire Broadway e da essere portata in tournée in diversi Stati dell’Unione – “Mefistofele” vuole rappresentare l’eterna tensione tra il Bene ed il Male, con la vittoria finale del primo; anche “Nerone” riprendeva questo tema giustapponendo la decadenza romana con l’alba del Cristianesimo.
L’allestimento di “Mefistofele”, difficilissimo su un grande palcoscenico, è temerario in un teatro di medie o piccole dimensioni. Il Teatro Verdi di Pisa, il cui boccascena ha una larghezza massima di circa 13 metri, ne propone una edizione ‘trasportabile’. L’enorme organico orchestrale, diretto da Franesco Pasqualetti, è ospitato non solo in buca ma anche nei palchi di proscenio.
Il Coro Lirico Toscano è affiancato da complessi locali; in scena ci sono ben duecento coristi. La regia è affidata a Enrico Stinchelli, ideatore anche delle scene di Biagio Fersini; grande uso di proiezioni computerizzati. Teatro stracolmo la sera della ‘prima’ a Pisa dove “Mefistofele”non andava in scena da oltre quaranta anni. L’allestimento dimostra che questo affascinante ma straripante grand-opéra padano (ispirato più al wagnerismo che alla scuola francese).
Sotto il profilo musicale, il basso Giacomo Prestia (frequente protagonista di opere verdiane) debutta con successo nel ruolo di Mefistofele, grazie alla sua abilità anche attoriale. Merita di essere seguita il giovane soprano Valeria Sepe, il cui L’altra notte in fondo al mare è stato di altissimo livello. Antonello Palombi è un Faust di volume generoso ma la sua emissione ha due momento di incertezza, al primo atto e nell’ultimo. Dopo circa quattro ore in teatro, quindici minuti di ovazioni.
Soprattutto, lo spettacolo mostra che con qualche sforzo e molta inventiva ‘Mefistofele’ può essere allestito e circuitato in teatri di tradizione, spesso chiamati di provincia. In questi anni è proprio in quei teatri si fondono meglio innovazione e tradizione.