“Note alte – sette chiavi di lettura tra Dio e musica” ( Meccanica delle Idee, 92 pgg, 10 euro) è il libro che Ricky Barone, giornalista bresciano, ha pubblicato a fine 2015. Contiene alcune interviste esclusive ad artisti del calibro di Angelo Branduardi, Massimo Bubola, Eugenio Finardi, Giovanni Nuti, Massimo Priviero, Antonella Ruggiero e Giuni Russo (particolarmente commovente questa, poco prima della sua scomparsa, dove la cantante rivela una lucidità e uno spessore spirituale impressionanti). Ma contiene anche appunto “sette chiavi di lettura”, sette capitoli cioè dell’autore che analizzano il legame strettissimo tra canzone e Mistero, una indagine affascinante al fondo del cuore dell’uomo. In esclusiva grazie all’editore pubblichiamo uno di questi capitoli.



“La musica è la tua esperienza, i tuoi pensieri, la tua comprensione delle cose. Se non la vivi, non potrà venire fuori dalla tua tromba” (Charlie Parker).

La musica è per sua natura obbedienza. Si obbedisce innanzitutto ad un impulso, ad un suono che viene prima, che c’è già. Obbedire, “ob-audire”, ascoltare qualcosa già presente da qualche parte, magari nascosto. Da quel primo vagito musicale nasce poi il desiderio di comunicare attraverso la musica oppure tramite/grazie alla musica. Essere strumento quindi. Una comunicazione che può essere fatta di soli suoni, di veli da togliere e mettere per provocare emozioni, per annunciare sensazioni, per far ascoltare il respiro della natura, per osservare il sole che sorge, per raccontare di un tramonto o di un deserto. 



Ogni musicista, dal più piccolo al più grande, obbedisce a queste leggi.

Si racconta che la creazione del mondo venne annunciata con il suono di un corno d’ariete, ed è per questo che nel Capodanno ebraico si usa suonare il corno, per annunciare l’inizio di un nuovo anno. Il suono poi attraversa il tempo, lo scavalca e lo travalica, e si deposita quando trova un cuore aperto e disposto ad accoglierlo.

È qui che il suono, la musica, una canzone si fa carne. “All’ombra

Dell’ultimo sole s’era assopito un pescatore, e aveva un solco lungo il viso come una specie di sorriso…e versò il vino e spezzò il pane a chi diceva ho sete ho fame” [Verso de “Il pescatore”, singolo di Fabrizio De Andrè, Belldisc/Liberty 1970]. Ci sono canzoni che viaggiano come storie, con un incipit, una trama, un finale, bello o brutto che sia. Sono le storie del folk e del rock, che raccontano dei vari Pat Garret & Billy the Kid, dei Bobby Jean, dei frequentatori del Bar Mario o del Roxy bar, dove ci troveremo, a bere del whisky, come le star. Sono le canzoni popolari, quelle che una volta il popolo tramandava oralmente, che i menestrelli hanno portato in giro nei secoli passati e che i cantautori hanno seminato nel Novecento.



Sono tante le storie che incontriamo ed ascoltiamo attraverso le canzoni, magari a Natale, quando un bambino nasce e piange come tutti i bambini (“La redenzione strappa dalla superficie del tempo, nl grido di un piccolo bambino”) [Dalla canzone “Cry of a tiny babe”, Bruce Cockburn, dall’album “Nothing but a burning light”, Columbia 1991] o quelle che ci descrivono di vita, morte e miracoli. Di resurrezione quindi.

Alcuni anni fa uscì la raccolta di canzoni “The Passion of the Christ, songs inspired by” [Universal. 2004], curata dal regista del film “The passion”, Mel Gibson. Non la colonna sonora del film, quella è un’altra cosa, ma canzoni ispirate dalla passione di Gesù Cristo. Nel disco incontriamo autori come Hank Williams, tra i precursori del rock ‘n’ roll, Nick Cave, poeta australiano maledetto diventato poi grande e graffiante ricercatore della verità, la preghiera gospel “Precious Lord” cantata dagli straordinari “Ragazzi ciechi dell’Alabama” (The Blind Boys of Alabama), c’è – poteva mancare? – il mitico Elvis, grande interprete gospel di “Where no one stand alone”. Ci sono anche la voce di Dolores O’Riordan, cantante degli irlandesi Cranberries, che interpreta magistralmente l’Ave Maria di Schubert, mentre lo “zio Bob” Dylan canta “Not dark yet”, canzone da lui composta dopo un problema fisico che fece temere per la sua vita. 

Canzoni ricche di parole che camminano verso la verità, che cercano Dio e che sono costruite senza quel tono zuccheroso e spesso lacrimevole che hanno molte canzoni di ambito ecclesiastico. Perché sono canzoni vere, perché il loro linguaggio pur non essendo tipicamente religioso ha dentro di sé lo slancio di chi ha fame e sete di verità, perché “chi cerca la verità, lo sappia o no, cerca Dio” (Edith Stein). Canzoni che sono pure nel loro “laicismo” e per questo restituite al loro significato primo, che le rende capaci di parlare le lingue del mondo, di slanciarsi dal mondo verso Dio.

“Le canzoni sono come i fiori”, sbocciano così, con le parole che escono in un certo modo e poi si danno in pasto al mondo, che le mastica e spesso le risignifica in una, mille o centomila maniere. Oppure le frammenta in tanti cocci, ognuno se ne porta a casa un pezzo, e questo è un miracolo, è la moltiplicazione del senso di una canzone. Ci sono canzoni che ci nutrono, ci seguono, ci accompagnano nel nostro vivere. Quante volte ho cantato e calpestato quella frase: “How long to sing this song?” [Verso della canzone “40”, dall’album “War” degli U2, Island 1983].

Quante volte l’ho scritta sul diario o sull’agenda, di giorno e di notte. Una canzone nata come un salmo, il numero 40 della Bibbia, e diventata un inno nella voce di Bono degli U2. Dalla Bibbia al rock, dalla terra al cielo, una preghiera che per anni ha chiuso tutti i concerti degli U2, come una compieta che accompagna verso la notte e ripulisce l’anima. Ma ci sono anche canzoni che sono come sassi, “le parole sono come sassi” [Verso della canzone “Le mie parole”, dall’album “Pacifico” di Pacifico, Carosello 2000], pesano, incidono, graffiano, si lasciano accarezzare oppure colpiscono, e possono fare bene o possono fare male. A volte purtroppo le parole delle canzoni significano male, perché la loro radice non è sana, è deviata o malata.

Altre volte invece le canzoni cantano con parole stantie e banali, scelte apposta per illudere. Capita poi che parole stesse si possano smarrire – “Ho perso le parole” [Verso della canzone “Ho perso le parole”, dall’album “Radiofreccia” di Ligabue, Wea 1998] – , fino a non ritrovarsi più, non avere più nulla da dire se non svolazzare come letterine, scivolare e depositarsi sul bagnasciuga mollemente ed evaporare. Le canzoni vere no, quelle non svaniscono, non perdono mai la bellezza – autentica come un quadro di Van Gogh – che le ha generate. Le canzoni vere non si scolorano col tempo ma si rafforzano, come se acquistassero consapevolezza ed efficacia con il passare degli anni, fino a diventare eterne. Si tramandano di generazione in generazione, perché sono testimonianze, momenti di vita, pezzi di storia. “La storia siamo noi, nessuno si senta offeso, siamo noi questo prato di aghi sotto il cielo. La storia siamo noi, attenzione, nessuno si senta escluso. La storia siamo noi, siamo noi queste onde nel mare, questo rumore che rompe il silenzio, questo silenzio così duro da masticare” [Versi della canzone “La storia”, dall’album “Scacchi e tarocchi“ di Francesco De Gregori, Rca 1985].

Storie vissute e vivibili, che si possono descrivere e raccontare oppure storie fatte di attimi, sguardi, sorrisi, pensieri e tenerezze. Perché, come ci canta Giorgio Conte, la bellezza della vita in fondo sta tutta nel prendersi per mano e affidarsi al Mistero.

“Mi chiedi la vita tu, la vita è la vita. Io altre risposte non ne ho. Forse è una capriola o un salto mortale. Qualcuno si diverte qualcuno si fa male. Tu prendimi per mano, andiamo camminiamo a spasso con la vita, finché la vita vuole” [Versi della canzone “Cos’è mai la vita”, dall’album “Eccomi qua…” di Giorgio Conte, Polygram- Universal 1999].

(Ricky Barone)