The Other Side of This Life era una vecchia canzone di Fred Neil, resa popolare dai Jefferson Plane. That’s It For the Other One era invece una canzone dei primi Grateful Dead, quelli più psichedelici e futuristi. C’è stato un momento nella storia musicale del novecento che realmente si è cercato di condurre gli ascoltatori, e i musicisti stessi, verso un altro lato della vita, verso un oltre, verso un altro altrove. Non erano solo le droghe psichedeliche a fomentare questa visione, era una concezione della musica che faceva dell’improvvisazione totale, dell’abbattimento di ogni muro, della ricerca del suono perfetto le sue fondamenta. Una concezione che ha trovato negli anni i suoi eredi che hanno cercato di portare avanti questo abbattimento del muro: Dave Matthews Band, String Cheese Incident e tanti altri.
E’ una forma musicale difficile, che richiede concentrazione, buona disponibilità d’animo a lasciarsi condurre, nessuna preconcezione. Non sempre riesce, a musicisti e ascoltatori, di lasciarsi prendere da questi vortici musicali. Oppure ci vuole del tempo.
Al Fabrique di Milano (ottimo locale dall’acustica formidabile) nel loro unico concerto italiano la Chris Robinson Brotherhood è stata protagonista di questo esperimento magico. Chi aveva nostalgia dell’ex cantante dei Black Crowes, quella figura sciamanica e scatenata metà Mick Jagger e metà Rod Stewart, ha ritrovato invece un cantante e chitarrista compassato, che solo nel finale ha lasciato fuoriuscire a tratti quell’energia elettrica che lo caratterizzava. C’era invece un chitarrista compassato, ma con un sorriso dolce stampato sul viso per tre ore, segno di godimento musicale totale, che a tratti sembrava essere un ospite sul palco che cerca lui stesso di farsi coinvolgere in qualcosa anche per lui di sconosciuto, a tratti talmente coinvolto da sembrare appunto diventato “the other one”.
Con una band formidabile guidata dall’immenso Neal Casal alla chitarra solista (stupefacente per chi lo conosceva come cantautore di dischi acustici e intimisti vederlo rilasciare assoli acidissimi, infuocati, cosmici, lunghi anche quasi dieci minuti) e dall’ex tastierista dei Black Crowes, Adam MacDougall (la sezione ritmica è apparsa invece un po’ compassata nella prima parte, con un groove scandito in modo soffice, tipicamente californiano), Robinson è oggi lontano mille miglia dal personaggio che abbiamo amato per oltre vent’anni. Il che è sempre segno di intelligenza artistica, rinnovarsi e cercare sfide che possono risultare rischiose o anche perdenti.
Un concerto di tre ore diviso in due parti. Nella prima si è fatto fatica a entrare in questo “altro lato della vita”. E’ una musica che richiede ai musicisti parecchio tempo per entrarvi anche loro. Le canzoni della Brotherhood sono sembrate troppo simili tra loro e il tocco musicale uguale fino a quasi al plagio di certi passaggi dei Grateful Dead. Si fa anche fatica a riconoscere Tornado, pezzo dei Black Crowes, mentre I’m a Hog for You dei Coasters è una piacevolissima sorpresa con Robinson che si lancia in un lungo assolo di armonica di pura american music.
La seconda parte in cui evidentemente i musicisti si sentono più liberi, pronti ad accettare ogni sfida possibile è stata invece stratosferica: il pubblico che ha avuto la pazienza di seguirli fino a qui sarà ampiamente ricompensato. L’attacco è una scanzonata ma vibrante Shake, Rattle and Roll, classico di Big Joe Turner. A questo punto ogni riferimento salta in aria e per l’ora e mezza successiva si assiste a una sorta di suite unica dove dentro ci sono sei pezzi legati fra loro (tra cui anche They Love Each Other dal repertorio solista di Jerry Garcia) che esplodono in parti strumentali lunghe ed elaborate, ma mai fredde e calcolate, intrise invece di passionalità sanguigna, sferzate di vibrazioni musicali mozzafiato, guidate dalla chitarra ora furiosa, ora sperimentale, ora dolcissima dell’incredibile Neal Casal e dal mini moog di Adam MacDougall, mentre Robinson azzarda accordi, piccole parti soliste con un godimento assoluto. Anche la sezione ritmica esplode adesso a ritmi altissimi. A volte sono cacofonie cosmiche, a volte ogni musicista fugge per conto suo e la bravura della band è sempre recuperare il punto di partenza e trovare lo spazio per infilarcisi. E’ jam music, ma l’approccio è moderno e avanguardistico seppure fortemente ancorato agli anni 70. Incantano poi le melodie corali che traboccano di southern music, country, gospel, R&B. Spunta anche I Ain’t Hiding dei Crowes, un divertimento a base di funk e disco anni 70 che la band aveva quasi sempre ignorato, ma che dal vivo la Confraternità di Chris rende esaltante e irresistibile, portandoci dalle parti di Shakedown Street dei Dead.
Il gruppo torna sul palco con una delle sue tante sorprese, per dire che dopo questo lungo viaggio nell’altra dimensione della vita, si torna sempre al punto di partenza, alle fondamenta: Down in the Flood di Bob Dylan è un omaggio ai padri, eseguita con energia straboccante, similare a quella versione incandescente che Dylan e The Band eseguirono una unica volta sul memorabile disco “Rock of Ages”.
Tre ore di vibrazioni alla ricerca dell’altro lato della vita. Cosa chiedere di più, in questo inverno della musica che sembra non aver più niente da dire? Freak Power è la risposta.