Intervistare Bobo Rondelli è un’esperienza molto particolare. Perché il filo del discorso più volte si perde, si divaga, si finisce a parlare di tutt’altro. D’altronde, un’intervista con lui è come guardare lo specchio della sua carriera. Una carriera frastagliata, nella quale ha saltabeccato dalla canzone d’autore in stile classico al jazz (l’album “Disperati, intellettuali, ubriaconi”, con la direzione di uno Stefano Bollani ancora non superstar, è uno degli album italiani più belli mai pubblicati), dal revival degli anni Sessanta al rock degli Ottavo Padiglione, passando per il reggae, dalla collaborazione con Francesco Bianconi dei Baustelle e da lì per mille altri stili e generi.
Il filo ingarbugliato della carriera di Rondelli lo ha portato a presentare nei teatri le canzoni di Piero Ciampi (sarà a Milano al Teatro Parenti il prossimo 7 aprile, poi a Roma, a Siena ed a Massa), con uno spettacolo dal titolo “Ciampi ve lo faccio vedere io”, che è diventato nel frattempo anche un disco, prima pubblicato soltanto in Toscana e poi ristampato a livello nazionale.
Rondelli e Ciampi hanno molto in comune. Innanzitutto sono entrambi livornesi. Poi, e soprattutto, sono due irregolari ed irriverenti. Rondelli sostituisce l’ironia – e soprattutto l’autoironia – all’istinto autodistruttivo di Piero Ciampi ma, a ben vedere, la pasta artistica è la medesima.
In questo spettacolo – e di conseguenza nel disco – Rondelli mette al centro la poetica di Ciampi, fatta di umanità dolente e di sconfitte, con un approccio quasi da attore, curando alla perfezione i dettagli e le melodie, con un grande trasporto emotivo ma allo stesso tempo con un grande rispetto dello spirito degli originali.
Ecco cosa ci ha detto il cantautore livornese.
Perché, oggi, nel 2016, uno spettacolo in cui riprendere le canzoni di Piero Ciampi?
Principalmente perché sono senza una lira e perché grazie alle canzoni di Piero Ciampi ho la possibilità di cantare nei teatri e comunque di rivolgermi ad un pubblico più ampio di quello che normalmente ascolta le mie canzoni. E poi, d’altronde, io faccio semplicemente le veci di Ciampi. Quand’era in vita Ciampi diceva che, non essendo famoso, poteva permettersi di mandare in giro qualcuno che facesse finta di essere lui. Ecco, quel qualcuno ora sono io. Scherzi a parte, canto Ciampi essenzialmente perché è un grande poeta. In Ciampi si può ritrovare una grande spiritualità, assolutamente fuori dal comune. Ciampi è stato un artista che ha sempre vissuto in mezzo agli uomini comuni, accanto al macellaio o al giornalaio, senza ergersi sopra di loro. Stava in mezzo agli ultimi. Non gli interessava la fama e men che meno i soldi perché, come cantava, “il denaro è un giornale di ieri”. Nella sua poetica, Ciampi era anomalo. Mentre in tutti i cantautori si trovano eco francesi, Ciampi era più russo, più simile ad artisti come Vladimir Vysotsky, più terreno.
Le versioni proposte nel disco e nello spettacolo sono molto sobrie e rispettose degli originali, come ci fosse, di fondo, un timore reverenziale. Come mai questa scelta?
Quando sei davanti ad una cosa enorme, ci stai di fronte facendoti piccolo piccolo. Nella specie, abbiamo scelto di avvicinarci alle canzoni di Ciampi con arrangiamenti minimali, quasi jazzistici, che ci permettessero di presentarci in scena con una formazione ridotta, solo pianoforte, tromba e voce. D’altronde, questo è un progetto nato in maniera semplice, essenziale. Suonare poche note dà più forza alle parole. Ho cercato di fare come gli attori, di lavorare per sottrazione per fare avvicinare il più possibile il pubblico alle canzoni. Ho lavorato molto anche sull’intonazione…d’altronde io sono una macchina di suoni (inizia ad imitare alla perfezione le voci di Marcello Mastroianni ed Ugo Tognazzi). Alla fine, nella vita, quello che conta sono le cose piccole. Il grande poeta Camillo Sbarbaro era un appassionato studioso di licheni, una delle cose più piccole che ci siano; allo stesso modo, Ciampi stava in mezzo agli esseri umani, agli ultimi, ed era interessato alla loro umanità e cantava la loro umanità. Così anche io ho usato questo approccio nel cantarlo. In fondo, sono contento di non aver fatto grandi cose artistiche: in questo modo posso restare più vicino agli esseri umani e non perdermi.
Come sono state scelte le canzoni dello spettacolo, fra tutte quelle del repertorio di Piero Ciampi?
La scelta è stata fatta sulla base di quello che mi riesce più facile cantare, sia da un punto di vista musicale sia da un punto di vista personale. Anche io, come Ciampi, sono passato per l’esperienza della separazione. Così ho scelto delle canzoni in cui mi potevo immedesimare (come per esempio Sporca Estate, In un palazzo di giustizia, Ha tutte le carte in regola), tanto che a volte fatico persino ad arrivare alla fine perché mi prende il groppo alla gola. Poi, ovviamente, ha contato molto la gamma sonora delle canzoni. Ho scelto dei brani che potessero essere interpretati con pianoforte, tromba e voce senza perdere la propria forza.
Durante lo spettacolo c’è spazio anche per canzoni differenti da quelle che sono state incluse nel disco? Come sono i riscontri del pubblico?
Le canzoni presentate nello spettacolo sono tendenzialmente quelle del disco. Poi ne aggiungo qualcuna di Tenco, di Jannacci o di De André che si avvicina come mood a quelle di Ciampi. E poi, visto che il pubblico me le chiede, verso la fine faccio anche due o tre mie canzoni. Chiaramente, poi, durante lo spettacolo cerco di stemperare la drammaticità delle liriche di Ciampi portando un po’ di ironia e soprattutto di autoironia. Un po’ di leggerezza è essenziale: anche l’ironia può essere profonda. A 53 anni ho imparato come alleggerire la tensione degli spettacoli, da attore. Cerco di divertirmi io, perché quando riesco a divertire me stesso alla fine si diverte anche il pubblico. Il pubblico, appunto, sta rispondendo bene, molto più delle aspettative: non era scontato che le canzoni di Ciampi oggi interessassero ancora a qualcuno.
Il disco e lo spettacolo su Ciampi sono solo l’ennesima tappa di un percorso artistico frastagliato, che ha abbracciato tutti i generi, dal rock al jazz alla canzone d’autore passando per il reggae. Da dove proviene questo spirito “inquieto”?
Così fanno le puttane! Suono di tutto: in questo modo faccio credere alla gente di suonare musica sempre nuova. Anche Ciampi faceva canzoni profondamente diverse l’una dall’altra: da canzone a canzone puoi ritrovare la musica napoletana, Modugno, echi di Morricone, Aznavour, persino parlati “alla Califano”. L’importante, il centro di tutto, è la canzone e il significato della canzone: quello che conta è quello che vuoi dire. A me piace copiare di tutto, forse per distrarre il pubblico e non farlo accorgere del fatto che sono un copione. D’altronde, tutti alla fine copiano. David Bowie copiava Scott Walker il quale a sua volta copiava Jacques Brel; i Rolling Stones copiavano Muddy Waters e Chuck Berry. L’originalità è quasi impossibile.
Quali sono i programmi futuri?
Per ora provo a scrivere canzoni nuove perché dovrei fare un nuovo disco a breve. Scrivere canzoni però non è facile. A volte è quasi un parto. Vedremo…